28 agosto 2013

Maddalene Sky Marathon!

Nonostante me la tiri con libri con certi titoli, io di Sky-robe fino adesso avevo corso solo la Dolomites Sky Race, e non avevo per niente chiaro la differenza fra un ultra trail e una sky marathon. Epperò ho imparato in pochissimo tempo che la differenza è semplicissima tanto da poter essere riassunta in una sola lettera: un ultra trail ti sfinisce, una sky marathon ti finisce. O almeno deve provarci, e quello delle Maddalene ci prova alla grande. Lo si poteva forse capire già guardandosi intorno al sabato al ritiro dei pettorali, dove alle solite "scarpe tecniche" e magliette di altre gare la maggior parte dei presenti sfoggiava magrezza e garretti da gente che pedala alla grande. Ma il sospetto poteva quasi venire anche solo guardando il filmato di presentazione che ci hanno fatto vedere al "briefing tecnico" (uh, quanto è figo partecipare ad un "briefing tecnico") del sabato sera.


Brifingtecnico nel quale gli organizzatori ci informavano fra l'altro che i nostri nemici (ovvero quelli che avrebbero costretto l'organizzazione a ripiegare sul tracciato di riserva di 24 km su strada) erano fulmini, nebbia fitta e scariche di sassi, lasciando capire che invece freddo, vento, sassi scivolosi, pioggia a dirotto o qualsiasi altra fattispecie climatica, li avremmo dovuti considerare grandi amiconi e non avrebbero dovuto impensierirci.

In realtà comunque la vera durezza di questa gara dal filmato e dalle parole dei presentatori (fra i quali il più mitico è stato il Senatore Panizza, che dopo aver sottolineato che lui fa parte del Gruppo delle Autonomie e quindi rappresenta sia la popolazione di lingua italiana sia quella di lingua tedesca, tema particolarmente sentito in loco perché la gara vede la collaborazione fra comuni di lingua tedesca dove parte e comuni di lingua italiana dove arriva, non è riuscito ad andare oltre le tre (3!) parole in tedesco) non si coglieva appieno. Certo si capiva che era lunga e che c'erano varie salite toste sapientemente sparpagliate nei punti strategici (tipo all'inizio, a metà, alla fine, dopo i ristori, cose così), ma non che dei più o meno 50.000 passi necessari per arrivare in fondo, avresti dovuto fare attenzione a dove ne mettevi almeno 45.000. Ufficialmente gran parte del percorso era su "single track" (uh, quanto è figo correre su un "single track"), che vuol dire un sentiero dove ci passi in uno alla volta. Ma la verità è che per gran parte del percorso non ci stava più di un piede alla volta, vuoi per i sassi, vuoi per le radici, vuoi per le zolle d'erba, o solo perché il sentiero era largo 30 centimetri e poi c'era un dirupo. Così in salita ti stancavi perché era in salita, in pianura perché dovevi stare attento a dove mettere i piedi, e in discesa perché era per lo più ripida, scivolosa, e dovevi stare attento a dove mettere i piedi. Di sicuro non c'era il pericolo di annoiarsi e infatti non mi sono annoiato.

Dopo profonde riflessioni e analisi sulla mia esperienza alla Trans D'Havet, mi era sembrato di capire che la mia in realtà non era stata una crisi da partenza troppo veloce, ma da fine della benzina. Nella crisi da partenza troppo veloce arrivi ad un certo momento che il cervello dice alle gambe di andare più veloce, e loro fanno finta di non sentire e rallentano. Nella crisi da fine della benzina nessuno dice più niente a nessuno e si spegne tutto. E a Valdagno era decisamente più la seconda che la prima. Così sta volta la mia massima preoccupazione è stata quella di avere abbastanza benzina dal primo all'ultimo km, e visto che avevo già verificato che a quelle velocità di corsa il mio stomaco continua a triturare alla grande (purché non gli dia il burro crudo...) ho praticamente continuato a mangiare da un'ora prima della partenza fino al 25esimo km. Al ristoro del 33esimo, a circa 12 dalla fine, ho deciso che ormai se mangiavo ancora lo avrei digerito a fine gara, e mi sono limitato a due rigeneranti bicchieri di un cocktail a base di sali minerali e cocacola.

Comunque la cosa ha funzionato alla grande e per tutta la gara ho avuto la piacevolissima sensazione di avere due tronchetti di energia al posto delle cosce, due specie di pile duracel che scaricavano a terra potenza ad ogni passo, correndo quando riuscivano, camminando quando era il caso, ma rimanendo sempre al massimo della velocità per me sostenibile in quel tratto. Ed è stata una futile quanto enorme soddisfazione constatare che negli ultimi 3 km in leggera discesa sono riuscito a correre a 4 minuti al km (e anche un po' meno nell'ultimo), alla faccia di quei 6 e mezzo abbondanti con cui ho chiuso rantolando la Trans d'Havet, e nonostante questa volta avessi un'ora, qualche km e 500 metri di dislivello in più nelle gambe.


Confesso di non aver mai desiderato neanche per un secondo che la gara durasse un metro in più di quello che durava, ma non ho neanche mai pensato "ma quanto cazzo manca???". E questo nonostante siano mancati quasi completamente i due elementi che potevano far sentire un po' meno la fatica e accorciare i chilometri: il panorama e l'agonismo. Il primo è stato il vero grande assente della giornata, il che considerando che era anche il motivo principale per cui mi ero iscritto, avrebbe potuto non essere un particolare trascurabile. In partenza pioveva, ma sembrava che il tempo migliorasse e che si potesse sperare che arrivati in cima si aprisse una di quelle giornate post temporale da pelle d'oca. Invece dopo un illusorio quarto d'ora scarso di schiarita con timida vista sul Brenta, è sparito tutto dietro la nebbia, e sul tetto della gara del Monte Pin, a 2420 metri di altezza, era già tanto riuscire a vedere la croce che c'era piantata in cima. Quanto all'agonismo, esclusi i 4-5 con cui ci siamo superati un paio di volte nel corso della gara, tutti gli altri non li ho praticamente visti, 50 perché erano troppo più avanti, gli altri 80 perché erano troppo più indietro.

Alla fine ho chiuso i 44 chilometri e rotte con 2905 metri di dislivello in salita e 3256 in discesa, in 6 ore, 45 minuti e 36 secondi, soddisfattissimo della mia prestazione e spremuto come un limone dopo gli ultimi otto chilometri di discesa, di cui, mai avrei detto, ho apprezzato moltissimo gli ultimi tre su asfalto, dove si poteva finalmente pensare solo a spingere senza preoccuparsi di dove mettere i piedi. Sono arrivato due ore e dieci dopo l'arrivo del primo, e poco meno di due ore dopo l'altro orientista presente, Roberto Dallavalle, arrivato quarto.

Qui invece chiudo con due ringraziamenti: uno ai 200 volontari di cui un'ottantina sparsi sul tracciato a prendersi ore e ore di acqua e nebbia e freddo solo per permettere a noi di divertirci, e uno all'Anto e ai miei boci per essere venuti ad aspettarmi al traguardo, perchè mai avevo desiderato così tanto che ci fossero, e c'erano.

Per chi cercasse resoconti della gara più dettagliati e ispirati, vi rimando ai post di Massimo e Massimiliano, due atleti veneziani super patiti di corsa in montagna, che mi hanno dato un passaggio sabato da Dermulo a Unsere Liebe Frau in Walde, e che ringrazio calorosamente.

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