26 dicembre 2020

San Vili al solstizio di inverno

Come si sa, per superarle, le notti, vere o figurate che siano, bisogna attraversarle. Così ho pensato di festeggiare il solstizio e i giorni che tornano ad allungarsi, passando una intera notte fuori, la mia settima di quest'anno, record assoluto di tutta la mia vita (è proprio vero che a invecchiare si dorme di meno...). 

Dato che è pur sempre inverno, ho pensato che era meglio rimanere su un tracciato "un po' urban", e ho scelto il Cammino di San Vili, da Madonna di Campiglio a Trento, che passa per moltissimi paesi e non si allontana mai molto dalla civiltà (che è poi anche il principale punto di debolezza di questo cammino, molto vario come paesaggi e tipo di fondo, ma senza quella sensazione di "essere uscito dal mondo", dei giri più belli).

Alle 19.35 la corriera mi deposita in centro a Madonna di Campiglio, che al 18 di dicembre è deserta come negli anni "normali" alle 4 di notte in aprile. Fa freschetto, c'è un sacco di neve, e per un attimo mi viene il dubbio di avere fatto una cazzata. Poi parto, il tracciato che voglio fare è per lo più abbastanza battuto da non fare troppa fatica per andare avanti, e già in uscita dal paese sono sufficientemente in temperatura e nel "mood" da cominciare a divertirmi. Sarà una lunga notte e ho intenzione di godermela tutta.

Dopo il primo tratto nevoso nel bosco fino a Pinzolo (km 11) in discesa nel bosco, da lì a Villa Rendena, a più o meno 25 km e 3 ore di viaggio, si sta in ciclabile, discesa non molto pendente, neve poca o dura. Da lì ci sarebbe la variante bassa, ma io ho voglia di buio e stelle e quindi salgo. Di stelle ne incontro tantissime, di buio meno, perché il buio vero in natura non esiste, neanche in questa notte senza luna (la mia prima del 2019, tutte le altre volte c'era luna piena!). Mi incanto per un po' a guardare il cielo e contare le stelle cadenti attorno ai 1000 di altitudine, ma è troppo freddo per fare i romantici, ancora meno per disperdersi nel bosco, ma in un tratto le segnaletiche SAT sono talmente scadenti da essere a prova di orientista e trali-runner di una certa esperienza. Dai miei calcoli la cosa più sensata da fare è proseguire lungo la massima pendenza, e prima o poi si arriverà alla strada di Passo Daone. 

Purtroppo prima della strada che sale al passo, c'è un dosso che mi manda un po' in crisi, ma mi salvano delle tracce di ciaspole che incontro, e dopo averle seguite per un po' nella direzione sbagliata, ritorno sui miei passi e sulla retta via. Inspiegabilmente si sale ancora un po' (ma non ero già più un alto del passo?) e poi finalmente si scende verso Larzana e poi Ragoli. Qui manco un bivio, non segnalato, per i quattro masi di Iron (bellissimi, ci sono stato qualche anno fa di giorno) e per punizione mi becco 7 km di strada provinciale fino a Stenico, abbastanza deserta (sono più o meno le 04:30) e quasi piana.

Piccola botta di freddo in uscita da Stenico, che mi spinge a mettermi addosso tutto quello che ho, poi mi riprendo dal freddo e cedo al sonno, su una panchina fuori da una casa di Seo, dotata persino di materassino. Accorcio il mio microsonno classico di 12 minuti a soli 7, perché continuo a svegliarmi per il freddo (e sacrificare il mio telo termico, che ho ormai sperimentato tenere un gran bel calduccio, per un solo pisolino mi sembra un peccato, dato che una volta usato non c'è verso di ripiegarlo), ma riparto comunque sufficientemente ritemprato da godermi le prime luci del nuovo giorno.

A casa manca ancora un bel po', sono poco meno che a metà strada, però ho passato la notte, è finita la neve, e da qui l'ho già fatta varie volte. In pratica, è finita l'avventura e rimane solo da pedalare. Fortunatamente le gambe sono ancora di buon umore e mi accompagnano senza protestare fino a casa, convinte anche da una abbondante colazione al bar di Ranzo, che apre alle 9 (quando arrivo io) e ha le brioches pronte solo alle 9.30, ma le recupero al supermercato e torno lì per un cappuccino e un caffé lungo che faranno da benzina fino a casa. A Ranzo dimentico invece di far fare colazione al mio gps che si spegne privandomi del piacere della tracciona (ricostruita a posteriori).

Il lago di Lamar, altre 3 ore e 15 km dopo, è la solita tentazione, ma stavolta fuori fa davvero troppo freddo per concedersi un bagnetto rigenerante, e sto tentando di arrivare in tempo a pranzo dai suoceri. Cosa che più o memo mi riesce, così comincio immediatamente a reintegrare le calorie spese in questi 107 km e poco meno di 3000 metri di dislivello, l'ultimo lunghissimo di questo 2020, che, alla faccia del Covid, mi ha portato in un sacco di posti bellissimi. 

Buon Anno.


 

23 dicembre 2020

Swiss Peaks Trail - seconda parte

Al nuovo risveglio il cielo è già chiaro e dopo poco arrivo al rifugio Cabane de Mille, al cospetto di Sua Maestà Monte Bianco e di molti altri sovrani. Dentro mi fermo poco, perché lo spettacolo tutto intorno è di quelli da togliere il fiato, ancora di più alla luce del primo mattino. Peccato che non me lo goda per niente: ho un evidente principio di bronchite, che è sintomo infallibile del Covid. Quindi devo avvisare gli organizzatori, ritirarmi, tornare a casa in qualche modo e chiudermi in quarantena. Intorno a me è tutto così bello che mi viene da piangere al pensiero di doverlo lasciare e telefono a mia moglie per farmi consolare. Lei mi fa notare che dopo tre notti all’aperto, in montagna, e con la neve, un po’ di casini respiratori sono il minimo che potevo aspettarmi, quindi il famigerato Corona Virus probabilmente non c’entra nulla. È talmente convincente, che in fondo ai 1300 metri di discesa, che mi bevo pieno di rinnovato entusiasmo, mi è già passato tutto. 

Alla base vita di Champex-Arpette, al chilometro 200, sotto un bel cielo azzurro scopro e che i miei piedi sono diventati due panetti gelatinosi, color bianco sporco, segnati da solchi profondi, che non trovo di meglio che spalmare con l’unica cosa che ho dietro: burro di cacao per le labbra. L’insolita “cura” sembra funzionare, mentre salgo convinto alla Fenetre d'Arpette e ne scendo sorvegliato dall’imponente ghiacciaio di Trient, ma smette di farlo nella discesa di pietre e gradoni che sprofonda nella forra del torrente “L’eau Noire” a poca distanza da Finhaut. Fortuna che poi per un po’ ho altro a cui pensare: alla base vita riprendo energia con un altro microsonno e un po’ di cibo; la estenuante salita al Col de Fenestral, con la sola luce della luna a mostrarmi il cammino, è di una bellezza tale da trascinarmi fino in cima senza mai tirare il fiato; la discesa successiva è un percorso casuale sulla roccia in cui tutte le mie facoltà sono impegnate nel tenere a bada una paura fottuta di farmi male; nella salita e discesa del Col d’Emaney sono ormai così stanco da non riuscire a pensare ad altro che al ristoro del Lago di Salanfe, dove trovo una branda e mi ci seppellisco per un po’.

Quando ne riemergo sta nascendo il mio quarto giorno di gara e mentre la salita verso le rocce nere e sbriciolate del Col de Susanfe è una piacevole escursione mattutina, la discesa verso il ristoro di Cantine de Barme, fra il male ai piedi e la frustrazione per tutta la voglia di correre che ho e l’impossibilità di farlo per il troppo dolore, è un’agonia. Così alla base vita di Les Crosets mi consegno alle mani del personale sanitario: in francese non sono in grado di spiegargli niente, quindi mi fanno quello che vogliono loro, cioè malissimo. La tortura però risulta efficace, aiutata anche da Jiri, un ex militare dell’esercito della Repubblica Ceca, che da quando mi raggiunge al chilometro 256 a quando ci separiamo al chilometro 290, smette di parlare solo sul tratto ripidissimo dopo il ristoro di Conches, con il risultato di rubarmi un po’ di poesia, ma di farmi dimenticare completamente il male ai piedi.

Nel frattempo, quando mancavano “solo” 35 chilometri all’arrivo, avevo deciso che ormai ero quasi arrivato, e non valeva la pena fermarsi a dormire in base vita. Che sia una idea del cavolo lo capisco già una decina di chilometri dopo, quando mi tocca cedere agli occhi che si chiudono, salutare Jiri, e raggomitolarmi per dieci minuti nell’oscurità in mezzo al pascolo, avvolto alla meglio nel mio telo termico ormai malridotto. Ma poi va di male in peggio. Appena sveglio manco un bivio e mi faccio un chilometro in discesa prima di accorgermi di aver sbagliato strada e di doverlo rifare in salita; per i dieci chilometri successivi corro completamente in balia degli eventi, straparlando con gli altri concorrenti in tutte le lingue che conosco, e con l’impressione di continuare a girare in tondo; al penultimo ristoro tento senza successo di dormire su una panca di legno nel fumo di un falò, e all’ultimo mi accascio su una branda senza più nessun interesse a finire la gara, e mi spengo.

Se riparto, è solo per colpa dei volontari, che dopo un’ora di sonno tombale mi buttano fuori dal ristoro e mi rimettono sul percorso, dove io, pur camminando, ci metto mezzora a tornare in me, rendermi conto che ho rischiato di ritirarmi a 12 chilometri di discesa dall’arrivo, e a rimettermi a correre.

Il tratto finale è la degna conclusione di un viaggio bellissimo, con le gambe che hanno ancora tanta voglia di correre, la luce del sabato mattina che illumina con discrezione il lago di Ginevra, e un po’ di gente ad applaudirmi mentre percorro gli ultimi metri prima dell’arco gonfiabile. Lo taglio dopo 104 ore 11 minuti e 58 secondi, quaranta ore più del primo, quaranta meno dell’ultimo.

22 dicembre 2020

Swiss Peaks Trail - prima parte

Dietro l’arco gonfiabile della partenza, sotto un cielo nero da cui cadono radi minuscoli cristalli di neve, poco meno di 300 uomini e donne ascoltano in religioso silenzio il briefing pre gara dello Swiss Peaks Trail: sarà lunga, farà freddo, state attenti.

A mezzanotte dell’ultimo lunedì di agosto partiamo, un branco di luci frontali che ballano uscendo da Bettmeralp, salgono fino al bordo del ghiacciaio più grande d’Europa, nascosto dall’oscurità, e poi si tuffano sempre più sgranate nella valle del Rodano. In fondo, molto prima del mattino, ci aspettano i primi 1800 metri di dislivello, per gli altri 21.000 e passa abbiamo tempo fino a domenica. Quando in cima al primo passo il sole bacia timidamente le cime intorno, la prima notte, che è sempre la più difficile, è andata. 

Il primo giorno di questo viaggio senza tappe è un lungo assaggio di quello che ci aspetta nei più di 300 chilometri fino al lago di Ginevra: salite lunghissime al cospetto di ghiacciai bianchissimi, discese rigeneranti su sentieri di ogni tipo, boschi incantati dove gnomi e folletti si nascondono sempre un secondo prima del nostro passaggio, torrenti gelidi dove non c’è tempo di sguazzare, villaggi di montagna vietati alle auto e al disordine, e tanta, tantissima Bellezza. Nonostante ai ristori dobbiamo igienizzarci le mani e indossare la mascherina, l’incubo del Covid visto da qui sembra appartenere ad un altro mondo, o ad un altro millennio. Poi è di nuovo notte e di nuovo salita, e io sto ancora bene, ma comincia ad essere tempo di riposare, dopo quasi 90 km e 30 ore dall’ultima volta che ho chiuso occhio. 

Alla base vita di Grimetz ci sarebbe tutto quello di cui ho bisogno: la borsa con le mie cose, cibo, letti e docce, basterebbe solo fare tutto nell’ordine giusto. Io invece mi metto a dormire prima di cambiarmi. Il risultato è che dopo poco mi sveglio intirizzito, e una doccia caldissima sembra la soluzione di tutti i miei problemi solo fino a quando non mi rendo conto che, appena ne uscirò, ricomincerò a tremare come prima. Mi ci vuole parecchio per trovare il coraggio di chiudere l’acqua, e ancor più per mettere insieme la voglia che serve a ributtarmi nel buio, dove mi aspetta una lunga salita prima della Cabane des Becs de Bossons. Meno male che per un po’ mi accompagna un francese e, quando lui se ne va, mi fa compagnia un’enorme luna piena, che illumina a giorno l’anfiteatro innevato dove salgo nel silenzio assoluto di una notte di montagna. Sarebbe un momento magico, se non fosse un momento quasi tragico: ho un sonno tremendo, mi si chiudono gli occhi. All’idea di addormentarmi qui, a non-so-quanti-gradi sotto zero, ho semplicemente paura di morire. A forza di farmi coraggio, di mordermi le dita e di spalmarmi neve sulla faccia, arrivo al rifugio in cima alla salita: dentro c’è un caldo tropicale e i gestori mi accompagnano in una stanzetta dove la paura si scioglie e mi concedo 20 minuti di black out assoluto. 

Quando riapro gli occhi sono pronto per mangiare qualcosa e godermi finalmente lo spettacolo che mi aspetta fuori: in un silenzio di cristallo la notte inizia a scolorarsi ritagliando sull’orizzonte centinaia di swiss peaks. Un minuto di pace assoluta e poi via, a lasciare che le gambe si godano la discesa senza un solo pensiero ad infastidirle. Al ristoro di Evolene, anche se non c’è niente che assomigli a brioche e cappuccino, è ora di fare colazione.

A quello di Chemenille, 800 metri più in alto, un’insalata di patate e maionese e una intervista alla TV della gara fanno da ricreazione prima degli altri 600 metri che mi separano dalla fine della salita. Poi la scena se la prende la maestosa diga Grande Dixence: prima come sfondo lontano alle foto scattate dal passo, poi come meta agognata da raggiungere risalendo una lunga valle placida che si impenna poco prima della base vita, posta ai suoi piedi. Arrivato lì, mangio molto, dormo poco, e riparto. Superata la diga e lasciato alle spalle lo spettacolo del Lac des Dix e di tutti i ghiacciai che lo circondano, la gara si infila in una valletta popolata di stambecchi, per poi riposarsi un attimo sull’incredibile spianata figlia della cava da cui hanno preso il materiale per la diga e, dopo un passo che per soli 15 metri mi toglie la soddisfazione di arrivare ai 3.000, planare su un’interminabile pietraia coperta di neve, dove ogni passo richiede dieci volte l’attenzione e cinque volte il tempo di quelli fatti fino a qui. E c’è di peggio: terminata l’interminabile, mi ritrovo su un sentiero in costa, a strapiombo sul buio, cosparso di tratti innevati e di nuove pietraie, molto più piccole della precedente, ma con pietre molto più grandi. Altre due ore che friggono il cervello per l’attenzione a dove mettere i piedi, e un’ultima di discesa “normale” che frigge solo le gambe, mi portano finalmente al ristoro di Plampro. 

Non è una base vita, quindi non c’è un posto caldo dove dormire, ma ho troppo sonno e dopo due piatti fumanti di raclette su letto di patate lesse, mi arrischio su una branda, avvolto nel telo termico di emergenza. Non è un piumino, ma tiene abbastanza caldo da farmi terminare con soddisfazione il microsonno da 15 minuti e permettermi di ripartire. 

È diventato giovedì, credo, e devo salire un brutto e ripido sentiero nel bosco, accompagnato da uno svizzero con cui chiacchieriamo per farcelo passare. Finita la parte peggiore ricomincio ad avere un gran sonno, che prima cerco di combattere tenendo occupato il cervello a raccontare al mio compagno, in francese, la storia di Cappuccetto Rosso, e poi di assecondare con un altro microsonno da 10 minuti sdraiato sull’erba, con addosso il telo termico e a fianco lo svizzero a controllare che non mi congeli. Quando lui mi sveglia non ho freddo, ma gli occhi insistono per richiudersi, così lascio andare il mio angelo custode e dormo altri 10 minuti.

Seconda parte