Al nuovo risveglio il cielo è già chiaro e dopo poco arrivo al rifugio Cabane de Mille, al cospetto di Sua Maestà Monte Bianco e di molti altri sovrani. Dentro mi fermo poco, perché lo spettacolo tutto intorno è di quelli da togliere il fiato, ancora di più alla luce del primo mattino. Peccato che non me lo goda per niente: ho un evidente principio di bronchite, che è sintomo infallibile del Covid. Quindi devo avvisare gli organizzatori, ritirarmi, tornare a casa in qualche modo e chiudermi in quarantena. Intorno a me è tutto così bello che mi viene da piangere al pensiero di doverlo lasciare e telefono a mia moglie per farmi consolare. Lei mi fa notare che dopo tre notti all’aperto, in montagna, e con la neve, un po’ di casini respiratori sono il minimo che potevo aspettarmi, quindi il famigerato Corona Virus probabilmente non c’entra nulla. È talmente convincente, che in fondo ai 1300 metri di discesa, che mi bevo pieno di rinnovato entusiasmo, mi è già passato tutto.
Alla base vita di Champex-Arpette, al chilometro 200, sotto un bel cielo azzurro scopro e che i miei piedi sono diventati due panetti gelatinosi, color bianco sporco, segnati da solchi profondi, che non trovo di meglio che spalmare con l’unica cosa che ho dietro: burro di cacao per le labbra. L’insolita “cura” sembra funzionare, mentre salgo convinto alla Fenetre d'Arpette e ne scendo sorvegliato dall’imponente ghiacciaio di Trient, ma smette di farlo nella discesa di pietre e gradoni che sprofonda nella forra del torrente “L’eau Noire” a poca distanza da Finhaut. Fortuna che poi per un po’ ho altro a cui pensare: alla base vita riprendo energia con un altro microsonno e un po’ di cibo; la estenuante salita al Col de Fenestral, con la sola luce della luna a mostrarmi il cammino, è di una bellezza tale da trascinarmi fino in cima senza mai tirare il fiato; la discesa successiva è un percorso casuale sulla roccia in cui tutte le mie facoltà sono impegnate nel tenere a bada una paura fottuta di farmi male; nella salita e discesa del Col d’Emaney sono ormai così stanco da non riuscire a pensare ad altro che al ristoro del Lago di Salanfe, dove trovo una branda e mi ci seppellisco per un po’.
Quando ne riemergo sta nascendo il mio quarto giorno di gara e mentre la salita verso le rocce nere e sbriciolate del Col de Susanfe è una piacevole escursione mattutina, la discesa verso il ristoro di Cantine de Barme, fra il male ai piedi e la frustrazione per tutta la voglia di correre che ho e l’impossibilità di farlo per il troppo dolore, è un’agonia. Così alla base vita di Les Crosets mi consegno alle mani del personale sanitario: in francese non sono in grado di spiegargli niente, quindi mi fanno quello che vogliono loro, cioè malissimo. La tortura però risulta efficace, aiutata anche da Jiri, un ex militare dell’esercito della Repubblica Ceca, che da quando mi raggiunge al chilometro 256 a quando ci separiamo al chilometro 290, smette di parlare solo sul tratto ripidissimo dopo il ristoro di Conches, con il risultato di rubarmi un po’ di poesia, ma di farmi dimenticare completamente il male ai piedi.
Nel frattempo, quando mancavano “solo” 35 chilometri all’arrivo, avevo deciso che ormai ero quasi arrivato, e non valeva la pena fermarsi a dormire in base vita. Che sia una idea del cavolo lo capisco già una decina di chilometri dopo, quando mi tocca cedere agli occhi che si chiudono, salutare Jiri, e raggomitolarmi per dieci minuti nell’oscurità in mezzo al pascolo, avvolto alla meglio nel mio telo termico ormai malridotto. Ma poi va di male in peggio. Appena sveglio manco un bivio e mi faccio un chilometro in discesa prima di accorgermi di aver sbagliato strada e di doverlo rifare in salita; per i dieci chilometri successivi corro completamente in balia degli eventi, straparlando con gli altri concorrenti in tutte le lingue che conosco, e con l’impressione di continuare a girare in tondo; al penultimo ristoro tento senza successo di dormire su una panca di legno nel fumo di un falò, e all’ultimo mi accascio su una branda senza più nessun interesse a finire la gara, e mi spengo.
Se riparto, è solo per colpa dei volontari, che dopo un’ora di sonno tombale mi buttano fuori dal ristoro e mi rimettono sul percorso, dove io, pur camminando, ci metto mezzora a tornare in me, rendermi conto che ho rischiato di ritirarmi a 12 chilometri di discesa dall’arrivo, e a rimettermi a correre.
Il tratto finale è la degna conclusione di un viaggio bellissimo, con le gambe che hanno ancora tanta voglia di correre, la luce del sabato mattina che illumina con discrezione il lago di Ginevra, e un po’ di gente ad applaudirmi mentre percorro gli ultimi metri prima dell’arco gonfiabile. Lo taglio dopo 104 ore 11 minuti e 58 secondi, quaranta ore più del primo, quaranta meno dell’ultimo.
Nessun commento:
Posta un commento
non lasciate commenti anonimi, suvvia...