28 gennaio 2020

Oricup inverno Madrano & Scurelle

C'è chi scorrazza per la Sicilia, e chi si deve accontentare della Valsugana, che è un bel po' più vicina a casa, ha delle cartine un pelo meno affascinanti, ma è comunque un modo per tenersi allenati. Nella fattispecie sulle sprint, che tentare di far girare veloci le gambe e il cervello già da gennaio, è sempre una buona idea.

E poi siamo in Trentino e quindi gli avversari sono sempre di buon livello. Anche troppo, dato che ormai ai giovincelli non riesco più a starci dietro.

Sabato 18 ero a Madrano, a godermi l'allenamento - garetta organizzato dall'Orienteering Pinè. Il percorso nero prevedeva 3 "mini" percorsi, con tre tipi di carte diverse: bianco e nero, specchiata e deformata. La prima non era molto diversa da una cartina solita, e la deformata non era poi così deformata, ma la specchiata è stata un vero lavoro di stretching per il cervello, che si è lamentato per tutto il tempo. Facile dire "se in carta devo andare a destra, nella realtà devo andare a sinistra e viceversa", farlo è un po' più complicato: devi andare contro quello che ti dice il pezzo di carta che hai in mano, che da anni ti insegnano essere la Bibbia. 
 
C'è chi dice che questa roba non allena nessuna abilità specifica, e magari è vero, ma quando poi mi sono trovato in mano la carta del percorso rosso (perché poi, per non farmi mancare niente, mi sono fatto anche quello) mi è sembrata una passeggiata (ok, non era esattamente la carta di Matera, comunque mi è sembrata molto più facile del solito.)

Le fondamentali classifiche dicono che mi sono preso due minuti e mezzo da Bettega F e ho dato 3 minuti scarsi a Bettega I (e ho battuto anche Piero Turra :-) e sempre le fondamentali classifiche dicono anche che quando ho fatto il rosso avevo le gambe un po' più lesse del previsto (ma vah, dopo una sprint di 25 minuti corsa a tutta???) e mi sono fatto dare 5 minuti da Luca Libardoni, e vabbeh, ma 3 minuti anche da Cipriani. E non va beh per niente.


 


Una settimana dopo a Scurelle il percorso nero, gentilmente offerto, così come quelli degli altri colori, dal Panda Orienteering, consisteva in 3 "micro" (ma neanche tanto micro) sprint, da fare una di seguito all'altra, con 3 minuti fra l'ultima lanterna di una e la prima della successiva. Premesso che la cartina non si leggeva una cippa, che c'era qualche coltivazione e recinto di pecore in più che in carta, che sono uscito dalla partenza della seconda cartina in direzione del cavolo, e che ho corso come un matto, ho saltato la 10 della seconda carta. Il motivo è che ho fatto la scelta sbagliata per andare alla 9, e come al solito nel cercare di recuperare ho sbagliato quella dopo. Lezione imparata? Mah...

E sabato prossimo, VeNotte per la 9° volta, e non vedo l'ora :-) :-) :-) 
(e così vedremo anche se gli allenamenti in Sicilia sono tanto più efficaci di quelli in Valsugana :-) :-) :-)


23 gennaio 2020

Il mio TOR(mentato) X – quarta puntata

Arriva l'8 settembre 2019, io mi sono preparato per mesi (o forse per anni, dato che per essere pronto per il TOR di km, metri D+ e D- e giorni e notti fra le montagne devi averne messi da parte parecchi) e sto di merda. A due ore dalla partenza annoto sul mio diario "L'ansia è a livelli altissimi. Almeno qui posso portarla a spasso per i monti e mescolarmi con gli altri". Il fisico è pronto, tutto il resto non lo è mai stato di meno di così. Speriamo che il TOR sia la cura.

Gli organizzatori hanno un debole per Vasco Rossi, che io ho sempre cordialmente detestato. Nell'attesa del via i due poliedrici speaker fanno ascoltare gli "inni" delle prime 9 edizioni, e sono quasi tutte canzoni sue, cosa che non aiuta il mio morale scassato. Mangio quasi fino all'ultimo prima di partire, che tanto di calorie me ne serviranno parecchie e il ritmo di partenza non sarà di quelli che bloccano la digestione. E parto.

Passerella fra le vie di Courmayeur a ritmo sufficiente da non rimanere imbottigliato nella panciona del gruppo (siamo più di 800) e poi su per il primo sentiero a passo controllato: mancano 329 km all'arrivo e qualcosa come 24.000 metri di dislivello. Il primo colle è il col d'Arp, 2.570 metri: dopo il tratto nei boschi si aprono i pascoli, comprensivi di mucche, che poi lasciano il posto alle pietre. Ma le pietre non le vedrò mai. A 1700 e poco, mentre salgo nel serpentone colorato insieme ai miei compagni trentini (senza nessuna soddisfazione), inizia a nevicare. Probabilmente è anche freddo, ma quello non è un problema. Di per sè neanche la neve è un problema (anzi, fossi nel pieno delle mie facoltà mi divertirei tantissimo), solo che nei prossimi giorni dobbiamo salire altri 1.600 metri di dislivello: se nevica qui come sarà a 3.300 metri? E di fantasmi ne avrei più che abbastanza dei miei, senza aggiungerci quelli meteorologici. Per la cronaca, sul versante opposto della valle c'è il sole.

In poco meno di 2 ore siamo al passo e iniziamo la prima discesa, sempre sotto la neve. Le gambe accelerano volentieri, la neve dura ancora poco, passa il primo ristoro, dopo 8 km e 1100 metri di discesa siamo a La Thuile, dove mi piacerebbe sedermi a mangiare un piatto caldo, tanto per farmi capire che è una cosa da prendere con calma. Però gli altri trentini hanno il fuoco al culo, arraffano un po' di spuntini (compresa la leggendaria "mocetta", una specie di breaola valdostana) e ripartono, e io non sono proprio in periodo da potermi permettere di rimanere da solo a cuor leggero. Usciti da lì Mattia e Fabrizio si involano, ma Luca prosegue con un passo potabile, e mi accodo a lui nella salita verso il Passo Alto. Alberto è rimasto indietro perché è riuscito ad allenarsi poco e vuole prenderla con ancora più calma. Il mantra è "non forzare - non forzare - non forzare", e non forzo. Il tempo bruttino riduce la visibilità, ma si capisce che già qui è un gran bel posto. Di cui io riesco a godermi un 10-15%. 

Al rifugio Deffeyes, di nuovo attorno ai 2500, appena ti fermi a mangiare qualcosa capisci che fa freschetto, così  aggiungo qualche strato e soprattutto tiro fuori le moffole da circolo polare, ma devo rinunciare a Luca che fugge in avanti. Il vallone prima del passo è bellissimo (me ne accorgo persino io) e dopo un'ultima rampetta sassosa, affrontata sempre con calma, affronto i 3 km di discesa (di cui non ricordo un singolo metro) prima di ricominciare a salire verso i 2800 metri del Col de la Crosatie (dove ritrovo Luca).

In una gara "normale" è una di quelle salite che ti ammazzerebbero, ma qui si prende a ritmo ragionevole, e allora i 1000 zig zag prima della cima sembrano quasi piacevoli. L'ultimo pezzo, con la luce della giornata che finisce e il Monte Bianco subito dietro le spalle, è a prova di depressi, e come lui la discesa all'ultima luce del giorno, con una pendenza tutta da correre (ma si passa accanto al cippo che ricorda che qui, in un posto senza nessuna difficoltà, due anni fa un concorrente ci è morto), fin sul fondo della valle dove sta la prima base vita di Valgrisenche. Prima di arrivarci, qualche km di falsopiano in salita, che prendo molto molto con calma.

Io e Luca e arriviamo insieme alla base vita, ma con programmi diversi. Lui mangia qualcosa e riparte, io voglio dichiarare chiuso il giorno 1, anche se sono da poco passate le 10, e me la prendo con calma: doccia, massaggi e tentativo di dormita (e mangio pure, ma non mi ricordo più né cosa né quando...). Con il senno di poi, superflui doccia e massaggi, velleitario il tentativo di dormita. Mi fanno accomodare in un camerone con una decina di letti a castello e altre brande, e sono solo. Sembra il paradiso e mi appisolo subito su una branda, con l'obiettivo di dormire un'ora. Dopo mezzora il paradiso finisce bruscamente con l'ingresso di altre 2-5-10 persone, che iniziano a fare un gran casino. Contrariatissimo, dopo un ancora più velleitario tentativo di ottenere un po' di silenzio, rimetto le mie cose nella borsa gialla e  riparto, dopo una sosta di poco più di un'ora in tutto.

Come al solito il primo impatto appena usciti dalla base vita è tragico: tanto freddo e tanto buio. E l'alba è tanto lontana. E sono tanto solo.

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19 gennaio 2020

S1 Ipertail Corsa della Bora 2020

Riassunto della puntata precedente: nel 2019 mi ero divertito un sacco a scorrazzare su e giù per il carso nei 165 km balisati dell'Ultra Trail Corsa della Bora. Potevo forse non provare la versione da 175 con partenza da Gorizia, senza balise e con "casse al seguito"? No, non potevo. Così il 4 gennaio alle 7 del mattino sono in Piazza della Transalpina a Gorizia, quella dove una volta c'era il muraglione del confine con la Slovenia e adesso non c'è più. Siamo 4 gatti, e per la precisione: 

- Luca Papi (vincitore, fra le altre cose, del Tor de Glaciers 2019)
- Alexander Rabensteiner (vincitore, f.l.a.c., della Südtirol Ultra Skyrace 2018)
- Peter Kienzl (vincitore, flac, della Transgrancanaria 2018)
- Marta Poretti (vincitrice flac del Ultra Trail del Deserto dei Gobi 2017)
- Maria Elisabetta Lastri (vincitrice, flac, dell'Ipetrail Corsa della Bora 2018)
- Luca Guerini (flac, IV all'Ultratrail Corsa della Bora 2019)
- Carlo Del Rizzo, Francese Imprecisato, Dario Pedrotti (flac, niente di niente)

Siamo così pochi perché gli altri concorrenti sono già partiti, un gruppo alle 00:00 e un gruppo alle 3:00. Noi siamo quelli convinti di riuscire ad arrivare entro le 21:00 del giorno dopo anche partendo alle 7 di mattina (che vuol dire risparmiando una notte di sonno). La compagnia è impegnativa, la giornata è bella, abbiamo davanti due giorni di tempo-tutto-per-noi, l'alba si avvicina, e partiamo.

In realtà io non sono solo, nel primo km sbuffa come un mantice insieme a me Roberto, il mio "iperatleta". Ho infatti aderito al progetto lanciato quest'anno dai vulcanici dell'Asd SentieroUno, in base al quale "alcuni partecipanti saranno coadiuvati da un’atleta disabile che svolgerà un ruolo fondamentale. Quest’ultimo monitorerà via satellite il proprio compagno d’avventura e gli fornirà l’assistenza pratica e psicologica nelle basi vita. Inoltre le coppie percorreranno spalla a spalla il primo kilometro della prova a Gorizia, per poi ritrovarsi a 1000m dalla linea d’arrivo e oltrepassarla mano nella mano, concludendo così il loro viaggio". Roberto ha moltissime disabilità: ha 19 anni, fino a 10 gg prima della gara non sapeva una mazza di trail, studia filosofia, è iscritto al Fronte Gioventù Comunista, e canta musica rap (con il nome d'arte "Imperfetto"). Però quando ci siamo parlati via FB è scattata una imprevista e quasi magica simpatia reciproca, e l'idea di ritrovarlo ad ogni base vita mi piace un sacco. A lui piace molto meno correre il primo km, ma arriva vivo fin dove doveva, e poi sono cavoli miei.
 
I primi km servono a fare amicizia con il navigatore gps: il tracciato non è segnalato con nulla, per arrivare in fondo bisogna affidarsi a lui. Per uno abituato con le cartine e la bussola, è quasi un gioco, ma è un gioco difficile. Primo, la tentazione di distrarsi è fortissima e ogni tanto cedi; secondo, gare di orienteering di 180 km non se ne sono mai viste; terzo, quando il tuo percorso non coincide con la traccia la maggior parte delle volte stai sbagliando tu, ma a volte è sbagliata la traccia, e non è facilissimo capire chi dei due abbia ragione.

Comunque, domato in qualche modo il congegno e riscaldate le gambe, mi trovo a correre in un posto bellissimo a picco sulla valle della Vipava, con una temperatura rigida ma piacevole, sotto un cielo limpidissimo, in compagnia di Luca 1, Luca 2, Elisabetta e Marta. Dato che io non mi sto tirando il collo, o sono diventato fortissimo, o loro stanno facendo un lungo riscaldamento. Scoprirò un po' più avanti che è la seconda, al primo strappo serio, attorno al 25° km, loro si involano e non li vedrò mai più. A dargli una mano nel seminarmi è anche la mia cattiva idea di mangiarmi un panino tonno e funghetti sott'olio, che mezzora dopo averlo inghiottito mi manda in crisi (prima e ultima della gara) con debolezza diffusa, aumento della sudorazione e del ritmo respiratorio e voglia di piantare lì. Per fortuna dura poco e i 1000 metri di dislivello in discesa (potabile) verso la prima base vita di Lokev aiutano.

Qui trovo Roberto che fra le altre cose mi ha procurato la limonata e l'acqua gassata che gli avevo "ordinato". Sto bene, ci scambiamo qualche facezia e riparto, non sapendo che è l'ultima volta che potremo scambiarci facezie.

Il secondo tratto parte con il "vertical di Caven, una salita spaccagambe da 1087 metri in meno di 4 chilometri, che supero brillantemente, contrariato solo dal fatto che il montarozzo dove arrivo si mette in mezzo fra me e il tramonto sul mare (lontano). Intravvedo solo fra gli alberi quella luce stupenda che i primi si beccano sulla cima più avanti (vedi foto a lato) e mi dispiace un sacco. Ma procedo bene, ritardando più possibile l'accensione della frontale per godermi la luce della (mezza) luna. Quando sto per iniziare la lunga discesa per la seconda base vita le batterie ricaricabili non tanto ricaricate della mia frontale mi costringono ad un pit-stop in mezzo ad un prato, e mi raggiunge Carlo. Che in discesa mi butta lì una cosa del tipo "sai che alle 19.30 c'è un cancello orario a Vrhpolje?". A Vhripolje, prossima base vita, mancano un numero imprecisato di km fra i 3 e i 5 in teoria tutti in discesa ma chissà, sono le ore 19.10 e io non avevo la più pallida idea che ci fosse un cancello orario (cioè, un posto che se non ci arrivi entro una tal ora, ti squalificano).

Mi butto giù per la discesa a velocità da scatto degli ultimi 100 metri, felice che le gambe non ne siano troppo scocciate, e incazzato come una biscia perché mi pare che sia surreale che al ritmo a cui sto andando io rischi di rimanere fuori dai cancelli orari. Arrivo a Vhrpolje alle 19.26 e chiedo a tutti i volontari che incontro se è vero che c'è un cancello orario alle 19.30. I primi 3 mi guardano con l'aria di uno che non sa cosa sia un cancello orario, il quarto mi dice "sì, c'è ed è in entrata" (cioè, se entri prima delle 19.30 puoi uscire quando ti pare). Sono ancora un pelo agitato, ma mi metto ad armeggiare nella mia cassa e a parlare con Roberto, con l'idea di tirare un po' il fiato. Ma 5 minuti dopo un altro volontario mi dice che il cancello era in uscita, e che se non riparto immediatamente mi squalificano. Qui mi salva la mia pessima abitudine di fare sempre tutto all'ultimo minuto, che mi permette di non farmi prendere dal panico e di prendere le cose strettamente indispensabili e ripartire, affannatissimo, ma con tutto quello che mi serve.

Un po' di pianura e poi si torna in su. Dicevo, il gps è un bel gioco, ma rischi di distrarti. Io mi metto ad armeggiare con le giacche e i guanti e non lo guardo per un po', che tanto sono su una forestale evidentissima. Dopo un po' mi accorgo di non essere sul tracciato, torno in giù, ma non trovo il bivio, quindi concludo che è sbagliata la traccia, e torno in su dalla stessa di prima. Dopo un altro po' mi telefona mia moglie da casa, che per pura botta di culo si è messa a seguire la mia traccia proprio in quei minuti, e mi dice che sto andando fuori percorso. Le dico che lo so, ma che il percorso giusto non c'è. Mi dice che però c'è uno dietro di me che lo sta percorrendo, quindi evidentemente c'è. Torno giù di nuovo, non lo trovo di nuovo, torno su un po' e trovo finalmente un bivio invisibile, impreco e lo imbocco: 40 minuti persi a vagare e un paio di km aggiunti gratuitamente.

Finalmente sulla diritta via salgo, salgo, salgo, a lungo in mezzo ai prati, a luce spenta, sotto la luna, ed è uno di quei (lunghi) momenti in cui ti ricordi perché a volte ti alzi alle 6 di mattina per andare ad allenarti. In cima al Monte Nanos c'è un vento che ti sposta, quindi non si può star lì molto a godersi lo spettacolo (che pure sarebbe notevole) così scendo. O almeno inizio a farlo, perché a questo punto sono le batterie del gps a tirare le cuoia. Togliersi i guanti e armeggiare con le pile non è piacevole, ma non ci sono alternative. Quando finalmente l'attrezzo si riprende, ricomincio a scendere "il naso del Nanos", variante proposta dal tracciatore, che permette di risparmiare qualche km, "al modico prezzo del rischio dell’osso del collo". Mentre mi destreggio fra cordini in metallo e dirupi, Roberto mi aiuta a rilassarmi dicendomi al telefono che ho un numero di minuti irrisorio per arrivare al cancello di Razdrto. Appena accelerare smette di essere sinonimo di gettarsi nel vuoto, cerco di farlo, e arrivo alla base vita con un paio di minuti di margine sul cancello. Qui i volontari sono unanimi nell'indicare che ho quasi 15 minuti prima di dover uscire, così "mi rilasso un sacco". 

Del tratto successivo non posso che copiaincollare quello che ho scritto per il sito della gazzetta. "I successivi quaranta chilometri hanno portato gli atleti fino ad affacciarsi sul mare, con la gran parte del dislivello ormai alle spalle, ma con un lunghissimo tratto di foresta, per molti buia, ancora da attraversare. Molto suggestivo, anche se per tutti immerso nella oscurità, l’attraversamento del canyon dove si inabissano le acque del fiume Timavo e, poco più avanti, la voragine del Parco delle Grotte di San Canziano. Emozioni di tutt’altro tipo hanno suscitato invece le moltissime vecchie giacche a vento e vecchie coperte sparse lungo il sentiero, reperti recentissimi della famigerata “via dei Balcani”, la rotta seguita da molti migranti provenienti da Africa e Asia, che cercano di entrare in Europa via terra: percorrere gli stessi sentieri, nelle stesse condizioni di buio e di freddo, ma con tutt’altro abbigliamento, tutt’altro spirito, e tutt’altre prospettive davanti, non ha potuto lasciare indifferenti. Così come non ha lasciato indifferenti il mazzo di fiori e la croce posati sulla falesia alle spalle di Trieste, dove pochi giorni prima della gara un migrante algerino è precipitato perdendo la vita. Certo, chi correva era lì per correre, e ha continuato a farlo, ma sarà anche quello un “pezzo di Carso” che gli rimarrà dentro."

Con l'aggiunta della mia incazzatura iperbolica quando alla base di Park Skocjanske Jame (dove sono arrivato dopo aver corso i 4 km su e giù per il canyon a velocità insensata) mi dicono che sono arrivato 6 minuti troppo tardi e quindi sono squalificato. Ora, a me quello che interessa è arrivare in fondo, e se non sarò qualificato chissene. Però in questi cancelli orari c'è qualcosa che non va. Per fortuna Roberto ha fregato qualche gel dalla mia cassa, così ho di che alimentarmi nei km successivi, però ho dovuto rinunciare al gulasch che servivano alla base vita, e che sognavo da chilometri.

Il tratto lungo il mare l'ho già corso l'anno prima, le gambe vanno ancora, le ore passano, litigo con la traccia gps a Porto Piccolo (20 minuti persi, e stavolta era la traccia ad essere sbagliata), mi trascino un po' lungo gli ultimi 15 km che trovo un po' gratuiti, e finalmente, quando è già di nuovo notte da un po', e sono passate 37 ore, 10 minuti e 54 secondi dalla partenza, arrivo al traguardo, mano nella mano con Roberto.

Dopo qualche giorno la classifica finale, corretta dai vari orari di partenza diversi, penalità e chissà che altro, dice che non solo sono qualiticato, ma sono anche arrivato 6° assoluto. Ad una eternità dal primo (il mio classico 1,5 volte il tempo del vincitore) e a 2,5 ore dal 5°, che quindi non avrei potuto raggiungere in nessun modo legale.

L'iper trail, quello con le casse e senza le fettucce, torna nel 2022, con partenza dalla Croazia. Chissà...










3 gennaio 2020

Il mio TOR(mentato) X – terza puntata

Sull’auto che parte da Trento con direzione Valle d'Aosta siamo in cinque: Luca, il padrone dell’auto, che ha già corso (e molto bene!) il Tor nel 2018, Alberto, altro veterano, e tre novellini: Mattia, Fabrizio ed io. Per 433 km e poco meno di 5 ore di viaggio si parla solo di trail running e, per una buona percentuale di questi, di TOR. I discepoli interrogano, Luca erudisce e Alberto tace, e il concetto di fondo, anzi, l’unico concetto, è che sarà una gara tremendamente impegnativa e non è per niente, ma proprio per niente detto, che si riesca ad arrivare in fondo. In questo clima di preoccupazione galoppante, le angosce che mi porto da casa si mimetizzano alla perfezione: da fuori posso benissimo sembrare in ansia  per la gara. A me piacerebbe molto fosse così, ma so che non lo è, e mi auguro che almeno le ansie da Tor scaccino per un po’ tutte le altre. 

Courmayeur è un paesello acquattato ai piedi del Monte Bianco, talmente “ai piedi”, che Trento al confronto sembra una città di pianura. In questo paesello, ad inizio settembre di ogni anno (ma, temo, anche in tutto del resto dell’anno) sembra una cosa normale che ci siano delle persone che si fanno 330 km e 33.000 metri di dislivello per infilare una dietro l’altra le Alte Vie numero 2 e numero 1 della Valle d’Aosta, passando vicino ad alcune delle montagne più alte d’Italia (i “geants”, per l’appunto) e dormendo poco o niente. Del resto, ci sono tanti posti in cui sembra una cosa normale lavorare 12 ore al giorno 365 giorni all’anno, con il solo obiettivo di guadagnare un sacco di soldi che lavorando 12 ore al giorno 365 giorni all’anno non si arriva neanche a spendere, quindi forse tutto sommato i più matti non sono neanche da queste parti. 

Il quartier generale della gara è il palazzetto dello sport, dove, dopo una singolare procedura che ci fa fare una lunga coda per prendere il numeretto che dopo aver aspettato un secolo ci permetterà di non fare una lunga coda e di non aspettare un secolo per ritirare i materiali per la gara, metto le mani sulla famosa “borsa gialla del Tor”. Ora, del Tor si può pensare quello che si vuole, ma La Borsa Gialla del Tor è un feticcio irresistibile per chiunque abbia mai corso almeno 5 minuti su e giù per una montagna. Peccato che nelle condizioni in cui sono mi faccia lo stesso effetto di uno shopper compostabile della Coop. Comunque, ce l’ho. 

Nel pomeriggio per ingannare l’attesa facciamo un pellegrinaggio all’inizio del sentiero appena fuori dal paese, dove la gara abbandonerà l’asfalto per buttarsi nel bosco. Ci sono le frecce e le bandierine del Tor, quelle che ho visto in decine di filmati e centinaia di fotografie, sono proprio lì in carne ed ossa. Ed io sono lì con loro, in carne ed ossa, e domani comincerò a corrergli dietro. Alla sera c’è un sontuoso pasta party e il briefing tecnico, dove Silvano Gadin & Ivan Parasacco, Le Voci del Tor, nel loro modo al tempo stesso molto pomposo e molto alla mano, prendono per mano tutti i concorrenti, che accompagneranno fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno. Promettono soprattutto tanta tanta Fatica, tanto tanto Freddo e tanta tanta Bellezza. Il cima è molto particolare, si percepisce l’Evento, la grande soddisfazione di tutti per essere lì, ma anche fortissima la paura di ciascuno di non essere all’altezza, di non riuscire ad arrivare in fondo, sia di quelli che lotteranno con i cancelli orari, sia di quelli che cercheranno di vincere. Del resto, Franco Collé, che ha vinto il TOR nel 2018, nel 2017 si è ritirato a 22 chilometri dall’arrivo, quando era un testa con più di un’ora sul secondo, perché si è fermato un attimo a dormire, ha preso freddo, e non è più riuscito a riprendersi. E se una cosa del genere succede a lui, che è quasi un professionista, figurarsi cosa può succedere agli umani. 

Io, in mezzo a quella sorta di magone collettivo, me ne sto lì con il mio magone personale, e domani finalmente si parte.

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