22 dicembre 2020

Swiss Peaks Trail - prima parte

Dietro l’arco gonfiabile della partenza, sotto un cielo nero da cui cadono radi minuscoli cristalli di neve, poco meno di 300 uomini e donne ascoltano in religioso silenzio il briefing pre gara dello Swiss Peaks Trail: sarà lunga, farà freddo, state attenti.

A mezzanotte dell’ultimo lunedì di agosto partiamo, un branco di luci frontali che ballano uscendo da Bettmeralp, salgono fino al bordo del ghiacciaio più grande d’Europa, nascosto dall’oscurità, e poi si tuffano sempre più sgranate nella valle del Rodano. In fondo, molto prima del mattino, ci aspettano i primi 1800 metri di dislivello, per gli altri 21.000 e passa abbiamo tempo fino a domenica. Quando in cima al primo passo il sole bacia timidamente le cime intorno, la prima notte, che è sempre la più difficile, è andata. 

Il primo giorno di questo viaggio senza tappe è un lungo assaggio di quello che ci aspetta nei più di 300 chilometri fino al lago di Ginevra: salite lunghissime al cospetto di ghiacciai bianchissimi, discese rigeneranti su sentieri di ogni tipo, boschi incantati dove gnomi e folletti si nascondono sempre un secondo prima del nostro passaggio, torrenti gelidi dove non c’è tempo di sguazzare, villaggi di montagna vietati alle auto e al disordine, e tanta, tantissima Bellezza. Nonostante ai ristori dobbiamo igienizzarci le mani e indossare la mascherina, l’incubo del Covid visto da qui sembra appartenere ad un altro mondo, o ad un altro millennio. Poi è di nuovo notte e di nuovo salita, e io sto ancora bene, ma comincia ad essere tempo di riposare, dopo quasi 90 km e 30 ore dall’ultima volta che ho chiuso occhio. 

Alla base vita di Grimetz ci sarebbe tutto quello di cui ho bisogno: la borsa con le mie cose, cibo, letti e docce, basterebbe solo fare tutto nell’ordine giusto. Io invece mi metto a dormire prima di cambiarmi. Il risultato è che dopo poco mi sveglio intirizzito, e una doccia caldissima sembra la soluzione di tutti i miei problemi solo fino a quando non mi rendo conto che, appena ne uscirò, ricomincerò a tremare come prima. Mi ci vuole parecchio per trovare il coraggio di chiudere l’acqua, e ancor più per mettere insieme la voglia che serve a ributtarmi nel buio, dove mi aspetta una lunga salita prima della Cabane des Becs de Bossons. Meno male che per un po’ mi accompagna un francese e, quando lui se ne va, mi fa compagnia un’enorme luna piena, che illumina a giorno l’anfiteatro innevato dove salgo nel silenzio assoluto di una notte di montagna. Sarebbe un momento magico, se non fosse un momento quasi tragico: ho un sonno tremendo, mi si chiudono gli occhi. All’idea di addormentarmi qui, a non-so-quanti-gradi sotto zero, ho semplicemente paura di morire. A forza di farmi coraggio, di mordermi le dita e di spalmarmi neve sulla faccia, arrivo al rifugio in cima alla salita: dentro c’è un caldo tropicale e i gestori mi accompagnano in una stanzetta dove la paura si scioglie e mi concedo 20 minuti di black out assoluto. 

Quando riapro gli occhi sono pronto per mangiare qualcosa e godermi finalmente lo spettacolo che mi aspetta fuori: in un silenzio di cristallo la notte inizia a scolorarsi ritagliando sull’orizzonte centinaia di swiss peaks. Un minuto di pace assoluta e poi via, a lasciare che le gambe si godano la discesa senza un solo pensiero ad infastidirle. Al ristoro di Evolene, anche se non c’è niente che assomigli a brioche e cappuccino, è ora di fare colazione.

A quello di Chemenille, 800 metri più in alto, un’insalata di patate e maionese e una intervista alla TV della gara fanno da ricreazione prima degli altri 600 metri che mi separano dalla fine della salita. Poi la scena se la prende la maestosa diga Grande Dixence: prima come sfondo lontano alle foto scattate dal passo, poi come meta agognata da raggiungere risalendo una lunga valle placida che si impenna poco prima della base vita, posta ai suoi piedi. Arrivato lì, mangio molto, dormo poco, e riparto. Superata la diga e lasciato alle spalle lo spettacolo del Lac des Dix e di tutti i ghiacciai che lo circondano, la gara si infila in una valletta popolata di stambecchi, per poi riposarsi un attimo sull’incredibile spianata figlia della cava da cui hanno preso il materiale per la diga e, dopo un passo che per soli 15 metri mi toglie la soddisfazione di arrivare ai 3.000, planare su un’interminabile pietraia coperta di neve, dove ogni passo richiede dieci volte l’attenzione e cinque volte il tempo di quelli fatti fino a qui. E c’è di peggio: terminata l’interminabile, mi ritrovo su un sentiero in costa, a strapiombo sul buio, cosparso di tratti innevati e di nuove pietraie, molto più piccole della precedente, ma con pietre molto più grandi. Altre due ore che friggono il cervello per l’attenzione a dove mettere i piedi, e un’ultima di discesa “normale” che frigge solo le gambe, mi portano finalmente al ristoro di Plampro. 

Non è una base vita, quindi non c’è un posto caldo dove dormire, ma ho troppo sonno e dopo due piatti fumanti di raclette su letto di patate lesse, mi arrischio su una branda, avvolto nel telo termico di emergenza. Non è un piumino, ma tiene abbastanza caldo da farmi terminare con soddisfazione il microsonno da 15 minuti e permettermi di ripartire. 

È diventato giovedì, credo, e devo salire un brutto e ripido sentiero nel bosco, accompagnato da uno svizzero con cui chiacchieriamo per farcelo passare. Finita la parte peggiore ricomincio ad avere un gran sonno, che prima cerco di combattere tenendo occupato il cervello a raccontare al mio compagno, in francese, la storia di Cappuccetto Rosso, e poi di assecondare con un altro microsonno da 10 minuti sdraiato sull’erba, con addosso il telo termico e a fianco lo svizzero a controllare che non mi congeli. Quando lui mi sveglia non ho freddo, ma gli occhi insistono per richiudersi, così lascio andare il mio angelo custode e dormo altri 10 minuti.

Seconda parte



 

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