2 ottobre 2017

Il mio Adamello Ultra Trail

All'Adamello Ultra Trail inizio a farci un pensierino la primavera scorsa. Il chilometraggio è indecente (180 km) ma i posti bellissimi, e in fondo sono arrivato vivo alla fine di una 135 km, cosa saranno mai altri 50 km? Tra il fascino e la prudenza come al solito vince la prima, e mi iscrivo, pensando che se a fine luglio arriverò decentemente in fondo alla Südtirol Ultra Sky Race (121 km cattivissimi), ci sono buone probabilità che a fine settembre, con quella gara e qualche altro allenamento in più nelle gambe e nella testa, io riesca ad arrivare in fondo anche all'AUT.

A fine luglio trascorro tutti gli ultimi 30 km della S.U.S.R., oltre che ad arrancare penosamente anche in discesa, a giurare che la prima cosa che farò arrivato a casa sarà annullare la mia iscrizione all'AUT. Ma i giuramenti fatti in gara contano proprio poco, naturalmente non lo faccio, e quando a metà agosto capito dalle parti dell'Adamello per altre ragioni, la simpatia per quelle montagne diventa amore folle e incontenibile, e ogni residuo dubbio sul fatto che il 22 settembre io sia alla partenza di Vezza d'Oglio, viene spazzato via.

La sera del 21 settembre, dopo essermi abbuffato di tagliatelle ai funghi, spezzatino di cervo e torta meringata, versione un po' allargata della cena a cui avevo diritto con il buono pasto della gara, sono seduto in una saletta di quel ridente borgo della Val Camonica, con una quarantina di altre persone. Il clima è molto familiare, a parlare c'è lo speaker del Tor de Geant, e quello che risulta chiaro alla fine è che non c'è nessuna difficoltà tecnica, ma solo 180 km e 11.500 metri di dislivello, ai quali è il caso di prestare un certo rispetto.

Io naturalmente non ho la più pallida idea di cosa voglia dire "correre" una distanza del genere. E le virgolette sono dovute al fatto che in una cosa del genere in realtà la corsa è solo una parte, quella, se va tutto molto bene, che ti puoi permettere in discesa, in pianura, e nelle salite molto leggere, magari all'inizio. Il resto può essere nella migliore delle ipotesi camminata veloce, o anche per niente veloce.

Cosa potrò permettermi io lo scoprirò strada facendo. Ho una mezza idea di dormire un paio di ore la prima notte, se arrivo alla "base vita" di Ponte di Legno prima delle 5 di mattina.  Se ci arrivo più tardi, starà quasi per sorgere il sole, e mi dispiacerebbe perdermi quei momenti. Dai calcoli che ho provato a fare nei giorni precedenti, arrivarci verso le 4 sembrerebbe una cosa fattibile, ma non so neanche se sono giusti i calcoli. Comunque alle 9 sono pronto al via, siamo una ottantina, e quando dagli altoparlanti declamano che stiamo per partire per 180 km di gara, mi viene in mente quando ho partecipato all'Ultrabericus per la prima volta, e non riuscivo a capire cosa ci facessi io fra quei pazzi che stavano partendo per una gara da 65: sono passati solo 4 anni. Speriamo la progressione non prosegua.

Mi ero ripromesso di partire lentissimo, e così faccio. Solo dopo una decina di minuti inizio a superare qualcuno, ed è già ora della prima salita, 1.600 metri di dislivello positivo (D+) su pendenze non troppo severe, verso il Monte Rovaia, le sue pietre e le sue trincee. La giornata è splendida, la temperatura anche, il panorama è da subito quello che mi immaginavo, ho solo qualche dubbio sull'andatura da tenere. Sono in un gruppetto con altri 3, dei quali uno mi dice di prenderla con un po' più calma, ma un altro è Igor, quello con cui ho cenato il giorno prima, che è alla sua terza partecipazione e nelle altre due ci ha messo 46 ore, che sono 8 in più di quelle che vorrei metterci io (solo a fine gara Igor mi dirà che era partito decisamente troppo veloce, e poi ha rallentato molto...). Comunque le gambe hanno voglia e non mi sembra di star spingendo troppo, così proseguo, e mi sento proprio bene.

Il mio secondo buon proposito è quello di sedermi ai ristori, per tirare il fiato e riposarmi un po'. Lo faccio già dal primo, attorno al km 14 e al secondo tiro già talmente il fiato che lascio lì una borraccia. Meno male che ci sono bottigliette di plastica con cui rimediare. Nel frattempo siamo scesi quasi 1.000 metri, e li dobbiamo recuperare per arrivare alla Bocchetta di Valmassa, una lunga trincea fra i pietroni, con vista sull'Adamello. Un posto stupendo, non fosse che lo hanno costruito per farci la guerra, e chissà quanti ci sono morti.

Da lì in poi comincio a pensare al laghetto di Monticelli: rimpiango ancora di non aver fatto il bagno in quello a 30km dall'arrivo della SUSR, questa volta non farò lo stesso errore. Non mi sono però preso la briga di guardare l'altimetria con la necessaria calma, e dove mi aspetto al più una salitina, mi trovo 400 metri D+ piuttosto cattivi, che affronto con la smania di arrivare in spiaggia, invece che con la flemma che sarebbe dovuta ai 150 km ancora da correre. Al momento non me ne accorgo, ma credo che lascerò su quella salita parecchie energie che mi sarebbero venute comode più avanti. Il bagno comunque è fantastico! 10'' per s-vestire i panni di Killian sul Bianco, 1' scarso per godermi l'acqua gelida, 1' per asciugarmi e rivestirmi. Fossi stato ancora più saggio, sarei rimasto altri 5' sul sasso a bordo lago a godermi la bellezza del posto. Sarà per la prossima volta.

Altri 500 metri D- e siamo al ristoro di s.Apollonia. Qui speravo di trovare del cibo serio, invece ci sono solo assaggini. Un po' questo, un po' la mia malaugurata idea di fare il calcolo di quanta strada ho fatto e quanto me ne manca (sono a un quinto...) mi mandano in crisi. Così una salita che non sarebbe niente di particolarmente impegnativo, lungo un sentiero che sale con ampie curve fra i prati gialli, con la luce del pomeriggio che mi scalda, è il momento più buio della mia gara. Due mi raggiungono e mi superano senza che io riesca ad opporre la minima resistenza, e sono proprio depresso. Fortuna che sono solo 600 metri D+ e poi la compagnia di un tedesco, la discesa all'incantevole alpeggio di Case di Viso, la panca e il minestrone del ristoro, mi tirano sul il morale, e riparto verso il Rifugio Bozzi con tutt'altra carica.

Il Bozzi è uno degli "highlight" dichiarati della mia gara. Quando in estate ero capitato in Tonale per presentare il mio libro, ed ero andato a farmi una corsetta sui monti circostanti, ero finito su una cima che si affacciava sulla vallata dove si trova quel rifugio, e avevo pensato che era un posto dove prima o poi avrei assolutamente dovuto andarci a correre. Scoperto che la AUT passava proprio di lì, quello di arrivarci prima di notte era stato l'unico obiettivo cronometrico che mi ero posto. E così è stato.

Queste corse sono una cosa strana, dove non sai mai se quando ti senti finito sei finito davvero (ma neanche se quando ti sembra di averne ancora un sacco, ne hai ancora davvero), sta di fatto che mi mangio i 600 metri D+ che portano al mio paradiso, incantato dal giorno che finisce, e che mi abbandona proprio quando arrivo al rifugio: quando mi siedo fuori a mangiare un boccone ci si vede ancora, quando mi rialzo non ci si vede più. Riparto di umore splendido e mi godo alla luce della frontale dodici km per lo più piani, spingendo come fossi appena partito. Da sopra mi sorridono tutte le stelle dell'universo, da sotto mi guardano le luci di Ponte di Legno, e provo quella pienezza e quella "totale presenza a me stesso" che nessuna lezione di yoga è mai riuscita a regalarmi. E pensare che di questa lunga notte autunnale, a pensarci dal calduccio di casa mia, ne avevo avuto un po' di paura.

Con la sosta a malga Cadi ho paura di rovinare tutto, ma ho bisogno di sedermi, mangiare e riempire le borracce. Quando riparto l'estasi è passata, ma sto ancora molto bene, e riesco a guardare le luci lontane che mi mostrano quanto sta in alto il monte dove devo salire, con più voglia di andarci che preoccupazione per la salita. Sono altri 600 m D+, abbastanza in piedi, ma con quella coperta di stelle e quella sciarpa di silenzio, si potrebbe andare ovunque. Sto bene, spingo, scambio due battute con i volontari che mi aspettano al passo, e mi butto giù dall'altra.

A metà discesa c'è un noneso con lo stomaco in disordine, che si sta per ritirare e mi ricorda quanto siamo tutti appesi ad un filo, magari robusto, ma pur sempre un filo: un problema di stomaco, un piede appoggiato con troppa leggerezza, una distrazione di un secondo, o altre cento piccole cose, possono rispedirti subito a casa, o anche molto peggio. 

Dal ristoro successivo di Malga Strino riparto in tandem con Giorgio, che prima di alzarsi dal tavolo dichiara "la gara vera non è ancora cominciata". Mi piaceva un sacco correre da solo, ma la prossima parte fino a Ponte di Legno è meno suggestiva, e in ogni caso se lui ha deciso di correre con me c'è poco da fare. Spingiamo bene, senza tirarci il collo a vicenda e stimolandoci a tenere un buon ritmo. Dal passo del Tonale dobbiamo scendere 600 metri, ma la strada non si decide mai a puntare seriamente in giù. Inoltre il ristoro di Vescasa rischia di stroncarmi. Da molte ore sto correndo in pantaloncini corti e ventina leggera e stavo benissimo anche ai 2600. Quando esco dai 26° della bellissima baita dove c'è il ristoro, e torno ai 3°- 4° in cui ho corso fino a quel momento, ho una botta improvvisa di freddo. Mi sembra di gelare, inizio a battere i denti e sono costretto a fermarmi per mettermi addosso tutto quello che ho nello zainetto. Ho quasi ripreso Giorgio, che intanto era andato avanti, quando devo fermarmi di nuovo per spogliarmi, perché tornato in temperatura ho troppo caldo. Poi devo fermarmi di nuovo perché non mi sono spogliato abbastanza, e poi devo fermarmi un'altra volta ancora perché mi sono spogliato troppo. Riesco a riprendere Giorgio solo quando sta entrando nel palazzetto di Ponte di Legno, km 90, base vita e giro di boa: sono circa le 3 di notte, ho mezzora abbondante di vantaggio sulle mie speranze più ottimistiche, e sto da Dio.

Dentro è tutto silenzioso, qualcuno è seduto a mangiare, qualcuno è sulle brande che dorme, qualche parente aspetta il passaggio del suo eroe. Durante la discesa dal Tonale hanno cominciato a farmi un po' male le gambe, ma non ho sonno e mi sento molto lucido, non credo che dormire mi farebbe stare meglio di come sto. Così dopo essermi cambiato un po' di cose puzzolenti ed aver mangiato l'ennesima zuppa,  invece di buttarmi su una branda per un'oretta, mi faccio fare un massaggio, e riparto. Con il senno di poi, pessima idea, ma lì per lì mi era sembrata la migliore, e la verità probabilmente è che quando mi hanno detto che c'erano una decina di persone di sopra che dormivano, la parte infantil-agonistica di me non ha resistito alla tentazione di scappare via.

Ho prevenuto la botta di freddo post ristoro vestendomi al massimo, ma poco dopo l'uscita dal paese devo fermarmi per la botta di caldo successiva, tornando alla mia tenuta standard. Sono di nuovo solo, ho davanti 1200 metri D+ e questa volta quando vedo le lucine lassù in alto, ho molta meno voglia di andare a corrergli dietro. A metà salita poi compaiono anche delle lucine in basso, che corrono dietro a me, e quella parte che non mi ha lasciato dormire a Ponte di Legno, adesso mi spinge ad andare un pelo più forte del dovuto, per non farmi raggiungere. Non si vede un tubo, ma non sembra un bel posto, e il sentiero sale a zig zag apparentemente all'infinito.

Giorgio (che non è riuscito a dormire ma almeno si è buttato mezzora sulla branda) mi raggiunge prima della Bocchetta di Casola, ma gli altri no, e ci buttiamo già dall'altra quando già la luce sta riprendendo il posto del buio. Spengo la frontale mentre spingiamo in discesa, e come al solito l'idea di aver passato indenni la notte fa benissimo al morale. E ancor di più superare Fabrizio, che nella parte bassa della discesa sembra proprio alla frutta.

Al successivo ristoro di Pontagna, dove siamo al km 108, tristemente di nuovo sul fondovalle, io tento senza successo di sostituire al minestrone una pasta in bianco, della quale me ne va giù poca, e me ne rimane giù ancora di meno. Giorgio, io e Fabrizio siamo rispettivamente 12esimo, 13esimo e 14esimo, e così usciamo dal ristoro, Giorgio lanciato ad inseguire quelli davanti, io puntando a conservare la posizione, Fabrizio un po' dopo di me. All'uscita dal paese sbaglio un bivio e Fabrizio mi raggiunge: iniziamo così insieme l'unica parte veramente insensata della corsa: la salita al Monte Calvo. Sono 1000 metri D+, su una strada brutta, ripida, sconnessa, e senza panorama. Un vertical di 4 km con più di 100 km nelle gambe e altri 70 davanti, per arrivare ad una malga in mezzo ad un prato, da cui si torna subito giù. Che nervoso.

250 metri D- e poi di nuovo su, di nuovo su pendenze proibitive, questa volta su un sentiero strappato ai prati, di nuovo per arrivare in un posto qualsiasi con il solo scopo di scenderne subito, però almeno questa volta l'ultimo pezzo era un po' più bellino. Poi di nuovo giù, al ristoro di Caserme Pornina, dove mi siedo (ma rialzarsi comincia a diventare faticosetto) a mangiare un po'. Poi ancora giù fino al Rifugio alla Cascata, e da lì si torna a salire: 900 metri D+, l'ultimo dente prima di Edolo.

Il sentiero è infame quanto suggestivo: per lo stato in cui versano le mie gambe, gli scaloni che costringono a caricare tutto il peso del corpo su una coscia, sono un supplizio, ma non si può dire che non sia molto bello. La nostra andatura è modesta, ci superano un paio di concorrenti (oltre ai primi 2 missili della 90km) e ci mettiamo una vita ad arrivare al lago di Aviolo, che visto da casa in foto doveva essere un altro degli "highlights" della mia corsa, e sede di bagnetto del secondo giorno. 

Solo che non c'è il sole, il mio morale è bassino, e alzarsi e sedersi è ormai diventato un problema. Così mi accontento di metterci giù le gambe, sperando che l'acqua gelata migliori la loro situazione. Cosa che funziona solo poco poco. Da lì al passo della Gallinera c'è prima una bella valletta erbosa che non riesco a godermi, e poi un nuovo sentiero a tornantini, che di suo non sarebbe lunghissimo, ma che a me non passa più. Sono anche rimasto solo, perché fermare Fabrizio mentre facevo le abluzioni mi pareva brutto,  e tutto è ancora più difficile.

Quando mi affaccio dall'altra parte del passo, orrore! I 500 metri D- in programma sono ripidi, sassosi, franosi, tortuosi, instabili, e tutto quello che un corridore con le gambe in panne non vorrebbe neanche sentire nominare: a fare 2 km di discesa ci metto quasi un'ora. Dopo un'altra mezzora trascinata, questa volta in salita, arrivo al ristoro del Rifugio Malga Stain, dove chiedo asilo politico: datemi un letto! Me ne concedono uno in una casetta stupenda, affacciata sulla valle. 40+30 minuti più tardi riesco a svegliarmi e a ripartire.

Mi pare di stare decisamente meglio, le gambe sono ancora molto doloranti, ma ho ancora tanta voglia di arrivare in fondo. A Edolo mancano ancora 1200 metri D- e quasi 10 km, lì comincerà l'ultima vera salita e mancheranno ancora 30 km abbondanti alla fine, quindi non è il caso di prendere con troppa allegria la discesa che ho davanti. Probabilmente riuscirei a spingere un po' di più, ma meglio essere prudenti. Sono talmente prudente che all'imbocco del paese incontro una bambina che mi urla "ma perché non corriiiii???", "ma sei l'ultimooooooo???". Ma non mi scompongo, proseguo con il mio passo, e prima del ristoro di Edolo vado in gelateria ad impietosire la gelataia e farmi regalare un cono con il gusto più calorico che ha: bacio rinforzato al non mi ricordo cosa.

Breve sosta al ristoro, dove non c'è niente di meglio del cono che ho già in mano (e per il qual merito una intervista che prima o poi spero di vedere da qualche parte), e poi si parte: ho davanti 1000 metri di salita, e dietro 140 km e 34 ore e mezza. Sono concentrato come mi stessi giocando il podio per questioni di secondi: se molla la testa, addio, fosse per le gambe, sarei già a letto da un pezzo. Ci sono momenti in una corsa in cui puoi guardare in alto e farti attirare dalle cime, altri in cui la prossima curva o la prossima bandierina sono più che sufficienti, altri ancora in cui il metro davanti ai tuoi piedi è il massimo dell'orizzonte che ti puoi permettere: questo è uno di quei momenti. È di nuovo notte, la strada tanto per cambiare è ripidissima, io sono proprio stanco, ma non ho nessuna voglia di mollare. Per non pensare ai metri che mancano cerco di concentrarmi sul respiro o sui sassi che entrano nel cono di luce della mia frontale e ne escono dopo un paio di secondi. L'importante è che, per corto che sia (ed è proprio corto corto!), ad ogni passo ne segua un altro. Mi fermo un paio di volte a riposare, ma rialzarmi è sempre più faticoso, quindi è meglio se smetto di farlo. Mi superano praticamente tutti quelli della 90 km, donne comprese, e mi fa strano sentirmi fare i complimenti da gente che mi sta passando a velocità doppia. Vero che io ho 90 km più di loro sul groppone, ma loro adesso sono molto più veloci di me, ed è questa l'unica cosa che si vede.

Gli ultimi chilometri prima del ristoro assumono grazie al cielo una pendenza umana, dove riesco a spingere un po' di più, e poi finalmente appare Malga Mola. Sono le 23, ma dentro c'è il solito clima da gita scolastica. Io mi accascio su una sedia a consumare la minestra numero 1000, scoprendo questa volta che addizionata con cubetti di mortadella funziona molto meglio. Sono cotto, ma aver fatto la maggior parte della salita mi ridà un po' di energie, e comunque la voglia di arrivare in fondo non mi è mai venuta a mancare. Ci sarebbero un paio di brande, ma non mi sembra il momento di fermarsi: ormai mancano poco più di 25 km. Questa seconda notte non è certo idilliaca come la prima, ma posso farcela.

Breve tratto in discesa e poi si torna a salire, non ho più voglia di guardare mappa e altimetria, i miei ricordi in merito sono confusi, e le luci che vedo in alto non mi fanno capire un granché. Comunque continuo a spingere con tutte le energie che mi sono rimaste, che non sono poi male. Attorno all'una quelli che sembravano bagliori lontani iniziano a diventare lampi sempre più vicini, e quando il conteggio fra il lampo e il tuono mi si interrompe a 1'', vengo investito dal diluvio. Ho già messo "il guscio", la giacca impermeabile a prova di fortunale, ma non ho indossato i pantaloni anti pioggia. Farlo rimanendo in piedi, con le mani intirizzite, facendo una fatica tremenda ad alzare le gambe, alla luce di una frontale, e sotto la pioggia scrosciante, non sarebbe facilissimo neanche se fossero un modello serio e io li avessi indossato un sacco di volte. Figurarsi se fanno schifo e non li ho mai messi. Quando alla fine riesco in qualche modo a tirarli su, loro e le gambe sono già completamente bagnati, e in più sono larghi e mi tocca correre tenendomeli su con una mano, per non inciamparci dentro. Sarebbe tutto molto buffo se non fossi in un punto imprecisato di una montagna, da solo, dopo l'una di notte, ad una temperatura prossima allo zero, con le scarpe piene d'acqua, su un sentiero tutt'altro che banale, perfettamente asciutto dalla vita in su, e completamente ammollo dalla vita in giù. Potrebbero succedere un sacco di cose brutte, ma non è proprio il caso di farsi prendere dal panico: palla lunga e pedalare.

Più volte nell'oscurità mi è sembrato di vedere due lucine che potevano far pensare ad una casupola, poi dietro una curva appare l'edificio più grande che io abbia incontrato in tutta la gara: il Rifugio al Lago del Mortirolo. Quando Biancaneve ha trovato la casa dei Sette Nani, al confronto era triste. Dentro c'è un bel calduccio, ma al posto degli ex concorrenti pronti a farsi portare al traguardo in pullmino, che mi aspettavo, ci sono atleti agguerriti che si cambiano pronti per ripartire. Io ho un momento di cedimento: sono le 3 meno 20, non ho calzini né mutande di ricambio, ho due spugne al posto delle scarpe, e l'idea di ributtarmi fuori sotto l'acqua in quelle condizioni, mi attira meno di zero. Ad attirarmi invece moltissimo c'è una porta con scritto "Camere - Zimmer". Dopo breve conciliabolo ottengo di farmi condurre di sopra, dove dietro una porta appare il sogno erotico frustrato della mia Südtirol Ultra Sky Race: un letto con due cuscini enormi e un piumone alto 20 centimetri. Doccia bollente, sotto il piumone, e tanti saluti a tutti.

Quando riapro gli occhi sono le 8 passate, ma sono ancora abbondantemente all'interno del tempo limite. Ha smesso di piovere, le mie cose si sono quasi asciugate, il sole sta per affacciarsi, il morale è alle stelle: mangio qualcosa, mi bevo un caffè e riparto di slancio, aiutato da un pezzetto di discesa. Le gambe sono ancora piuttosto doloranti, ma ormai chissene, mancano meno di 20 chilometri, dei quali 13 di discesa: se mi hanno portato fin qui, mi porteranno anche fino a Vezza d'Oglio.

L'aria è limpidissima, sono di nuovo solo fra i boschi, e ho ancora un sacco di voglia di esserlo. Sto addirittura già pensando che l'anno prossimo voglio tornare, cosa che non mi è mai successa in nessuna altra gara (di solito, verso la fine giuravo che non avrei mai più corso né quella né nessuna altra gara). Mi godo un po' di montagne della Valtellina, un po' di Orobie, di nuovo il gruppo dell'Adamello, di nuovo le montagne dove ho corso ormai due giorni fa, quasi tutte con una nuova spruzzata di neve fresca.

Arrivato al Pianaccio dopo un traverso che alle 3 sotto l'acqua deve essere stato un calvario, ma che alle 9 con i colori dell'autunno è la degna conclusione di questo viaggio, inizia davvero l'ultima discesa, ed è bellissimo. Le gambe vanno ancora e sono incredibilmente e soddisfatto per tutto quello che ho vissuto, per aver tenuto duro quando era il caso di tenere duro, e per avere mollato quando era il caso di mollare. Ad un paio di chilometri dalla fine, il fotografo che mi aveva beccato bambino felice con il cono in mano, mi ri-becca bambino felice che corre in un prato.

Arrivo al traguardo alle 11:26, un secolo dopo le mie previsioni più pessimistiche, 36esimo su 45 arrivati, e contento come una Pasqua: raramente mi sono gustato qualcosa tanto a fondo come questa corsa, e che io riuscissi a godermi per intero una cosa lunga 180 km era proprio tutto da dimostrare. Così come che il mio fisico fosse davvero pronto per una mostruosità del genere, ma se dopo due giorni con i piedi un po' gonfi e un altro paio con le cosce indolenzite, ero pronto per tornare a correre, pare proprio di sì. 

Posso fare di meglio? Certamente sì, una 180 km non si improvvisa, e se ci ho messo 3 tentativi per capire come funziona più o meno una mezza maratona, chissà quanti me ne serviranno per mettere davvero a punto una gara del genere. La prossima volta sicuramente dormirò un po' la prima notte, e magari un altro po' prima di essere costretto a farlo. E vedremo se riuscirò un giorno a finirla in 36 h.

Agli organizzatori chiedo solo di far saltare con la dinamite il Monte Calvo (o al limite di non metterlo nel tracciato) e di ordinare anche delle maglie finisher taglia XL, perché mi dispiacerebbe proprio tanto dover regalare al mio vicino anche quella dell'anno prossimo.

8 commenti:

  1. 180 km.....più di quattro maratone, e con una botta di dislivello pure.
    Sinceri complimenti, e anche tanti!
    Come hai anche ricordato, quando anni fa corresti il primo Ultrabericus sembrava "un impresa".
    Con questo ultra trail hai "alzato l'asticella" ad un'altro livello, assoluto.
    Chi l'avrebbe mai detto di uno che quando anni fa gli proposi di correre una semplice mezza, fece capire che era "troppa roba".
    Bravo Dario, questa (non che le altre non lo erano) è una grande impresa.

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    1. ti dirò, io continuo a pensare che le imprese siano ben altre. Questo è solo divertimento, e in qualsiasi momento puoi decidere che non ne hai più voglia e piantare lì. Ho avuto la fortuna di potermi preparare per fare una cosa che avevo voglia di fare, e che non succedesse niente per impedirmi di arrivare in fondo.
      Le imprese sono quelle della Vita, quando non ce la fai più ma vai avanti avanti lo stesso per le persone a cui vuoi bene :-)

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    2. Impresa sportiva si intendeva, naturalmente. Nella vita di tutti i giorni tanti devono effettivamente essere "eroi" inconsapevoli, per gli eventi più disparati. Pardon per tutti gli accenti sugli "un" sbagliati nel post precedente.....nei blog poi non puoi correggere. Non sarò mai uno scrittore come te ah ah ah.

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  3. Che bel racconto! E' stato bellissimo ripercorrere con te tutti quei ponti che ogni estate visito camminando. Io ci ho messo 20 anni per vederli tutti e tu, in poco più di 3 ore te li sei girati tutti. Massima stima e infinita invidia. L'anno prossimo verrò a farti il tifo!

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    1. Invidia? allora comincia ad allenarti :-)
      ti assicuro che la maggior parte dei partecipanti non erano (eravamo...) affatto dei superman!

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