A beneficio di quelli che se lo fossero perso nella sua naturale collocazione della pagina di gazzetta.it, e di me quando fra qualche anno su quel sito non ci sarà più, ecco il mio racconto dell'Adamello Ultra Trail 2018. Questa è la versione "per le masse", prossimamente quella "più intima" :-)
Pare che quella che diceva che gli esquimesi hanno 20 parole per dire “neve” sia una mezza bufala, in ogni caso i trail runner di parole per definire le loro gare ne hanno due sole: “trail” fino ai 42 km, “ultratrail” tutte le altre. Così ci sono “ultra” veramente interminabili e altre appena sopra la distanza della maratona. Quella dell'Adamello, con i suoi poco meno di 170 km, di maratone ne mette quattro una in fila all’altra, ognuna condita da poco meno di 3000 metri di dislivello, e con un terreno che, a gente che di solito il bitume vorrebbe cancellarlo dalla faccia della terra, negli ultimi chilometri un po’ di asfalto glielo fa desiderare più di una birra ghiacciata.
All’Adamello Ultra Trail ci torno dopo un anno dalla mia prima partecipazione, dopo aver sperimentato che l’unico modo per esorcizzare l’inesorabile accorciamento delle giornate è andare a viverlo ai 2500 metri del Rifugio Bozzi, con 70 km già nelle gambe e altri 100 davanti. E dopo aver sentito che se l’autunno lo inizi in alta Val Camonica, con quei colori e quelle cime davanti, e con quel calore straordinario del gruppo di volontari che organizza la gara tutto intorno a te, forse dell’estate ne sentirai un po’ meno la mancanza.
Correre distanze come questa, è come salpare per il mare aperto: davanti non vedi un’altra costa a cui puntare. Quello che sai è che parti e che vorresti arrivare, se ce la farai davvero, lo scoprirai solo alla fine.
Partenza, venerdì mattina ore 9.00, piazza centrale di Vezza d’Oglio. L’atmosfera è stupenda, ci sono anche schierati tutti i bambini della scuola elementare del paese, a battere il cinque a tutti gli atleti. Ti chiedi se da grandi vorranno provarci anche loro, o se, per essere sicuri di non finire così, non si allacceranno un paio di scarpe da corsa in vita loro. Intanto saltano qualche ora di scuola, e sono felici così. Felici almeno come quelli che partono, chi a razzo, chi camminando, chi conoscendo già ogni curva del percorso, chi scoprendolo metro per metro. I primi, di metri, se ne vanno su belli ripidi verso Cima Rovaia, dove una lunga trincea con vista Adamello ti fa rimanere bene impresso quanto nella vita orrore e meraviglia siano spesso vicinissime una all’altra. Una breve corsa in quota sulle pietre e poi giù a capofitto, che dopo 10 chilometri le gambe sono ancora freschissime e in Val di Cané c’è il primo ristoro che aspetta i concorrenti.
E poi di nuovo su, verso il trincerone delle Bocchette di Valmassa, un altro di quei posti che sarebbero fantastici se non lo avessero costruito per farci la guerra. Al trentesimo chilometro l’azzurro dei laghetti di Monticello è troppo invitante per non fare almeno un pensierino ad un tuffo, e poi di nuovo giù verso il ristoro di Santa Apollonia, sulla strada che porta al Passo Gavia. La gara si limita ad attraversarla per risalire sul monte a ovest di case di Viso, incantevole villaggio di pastori dove la pasta o il minestrone al punto di ristoro sono d’obbligo. A questo punto della gara fra il primo e l’ultimo ci sono già molte ore: i più forti ci arrivano con il sole del pomeriggio, molti altri con le frontali già accese da un po’. Per non essere squalificati, bisogna arrivarci entro l’una di sabato mattina.
Si riparte in salita, quasi tutti dopo essersi fermati una decina di minuti o poco più. C’è da conquistar il rifugio Bozzi e, da quest’anno, il Passo dei Contrabbandieri. Unisce la valle di Viso con il Passo del Tonale, da lassù c’è un panorama fantastico, riservato ai pochi superatleti che ci arrivano prima del tramonto. Per gli altri, l’ultimo tratto del percorso è illuminato dalle fiaccole, in ricordo della guerra di cento anni fa. Breve discesa e poi di nuovo su, sul Monte Tonale Orientale, ultima grossa salita della prima metà gara, di cui curarsi le fatiche nel ristoro di Malga Strino, dove un manipolo di giovincelli accolgono gli atleti accompagnati da una radio che sputa solo musica italiana. Si va dagli anni 60 ad oggi, quello che ti capita, ti capita. Il Passo del Tonale sembrava subito lì dietro, invece sono quasi 10 chilometri, più in salita che in discesa, avvolti dalle tenebre più fitte per la maggior parte dei concorrenti, con giusto qualche spiraglio di luna quasi piena che si concede raramente. Quando arrivano le piste che scendono a valle sono una benedizione, su cui lanciarsi con tutta l’entusiasmo che le gambe ancora concedono, e con tutta l’impazienza che la base vita con ristoro – docce – massaggi e brande, che attende a Ponte di Legno, ti mette dentro. Io decido che lì per me finisce una gara e ne inizierà un’altra. Fra le due, doccia e un’ora di dormita, o qualcosa che ci assomiglia. Mi sento pimpante, ma avevo provato l’anno scorso a tirare dritto dopo un piatto di pasta e un massaggio, e l’avevo pagato, con gli interessi, per tutto il resto della gara.
Anche qui si riparte in salita e la pendenza è subito severa. Dopo un breve falsopiano che ti fa sperare in tempi migliori, una pista da sci da salire lungo la linea di massima pendenza ti fa rimpiangere il materasso in palestra, o anche il letto a casa. Per me è ancora buio, nessuna vista ad aiutare a sopportare la fatica, neanche quando diventa parecchia, lungo le interminabili zeta che portano alla Bocchetta di Casola, dove il passo si affaccia all’improvviso dietro una roccia, dopo 28 (!) curve a gomito in due chilometri. La discesa riporta sul fondovalle, le gambe ne sono mediamente contente, il morale molto meno, dato che dopo la palestra di Pontagna (dove mi concedo altri 5-minuti-5 sdraiato su un materasso) si sale sul Monte Calvo: 6 chilometri e 600 metri di dislivello di fatica cristallina, con già più di 100 chilometri in ogni parte del corpo, e ancora troppi davanti per iniziare anche solo a fantasticare sull’arrivo.
E siccome chi è qui o ha una tempra d’acciaio o vuole fare una terapia d’urto per procurarsela, dopo due soli chilometri di discesa si torna a salire per altri 400 metri di dislivello, su un sentiero dove per fortuna non ci sono minori a sentire le parole di chi sale.
La discesa successiva porta al Rifugio alla Cascata, dove inizia il sentiero per il Lago di Aviolo, un posto più esclusivo di San Moritz: non ci sono soldi che tengano, per arrivarci bisogna guadagnarsi ogni metro su una specie di scalinata infinita fatta di pietroni irregolari, suggestiva quanto micidiale. Se solo ti è rimasta un briciolo di lucidità (e quest’anno, contrariamente all’anno scorso, io l’avevo) Il lago e la conca ripagano abbondantemente dello sforzo, e la salita al Passo Gallinera è uno scherzo al ricordo della Bocchetta Casola. Da lì, 3 chilometri tosti fra discesa scoscesa e breve risalita alla Malga Stain (anche lei con un delizioso comitato di accoglienza, capeggiato da una guida alpina del posto in grado di raccontarti la storia di ogni sasso dei dintorni), e dieci chilometri di discesa quasi ininterrotta fino ad Edolo, dove termina la terza maratona, e rischi di illuderti che ormai in qualche modo questo Ultra Trail dell’Adamello lo porterai a casa.
Il problema non è tanto la quarta maratona, quanto le tre che hai già nelle gambe, di cui non è detto tu abbia piena consapevolezza, dato che potrebbe anche essere una piacevole ora del pomeriggio, la gelataia della via principale potrebbe averti offerto un cono amarena e tirami su, e tu, per il solo fatto di essere già lì, potresti sentirti un gran figo. A ricordarti che “pulvis es et in pulverem reverteris”, ci pensa la salita dopo Edolo, che sembra progettata apposta per questo. 1000 metri di dislivello in 6 chilometri, con rampe ad una pendenza insensata, e un andamento che ti toglie qualsiasi punto di riferimento impedendoti di capire quanto mai possa mancare all’agognata Malga Mola.
Io quando arrivo lassù non sono che un lontano parente di quello che era partito da Edolo, e purtroppo sarà questo lontano parente a dover arrivare all’arrivo.
Da qui in poi il tracciato sarebbe molto bello: breve discesa e poi 400 metri di dislivello fino ad un traverso piacevole che conduce al Rifugio Mortirolo, e poi periplo non troppo pendente del Monte Pagano, fino al punto di controllo da cui vedi le luci di Vezza e inizi a sentire odore di arrivo, al quale mancano 8 chilometri tutti in discesa. Ma se la testa inizia ad invocare pietà, le gambe sono dure come il legno, e le piante dei piedi urlano, diventa tutto un po’ più complicato. Sono questi i momenti in cui ti chiedi chi mai te lo abbia fatto fare, ma quando sei riuscito a stringere i denti e a coprire ad una velocità qualsiasi la distanza fino all’arco gonfiabile dell’arrivo, e quella linea immaginaria che hai inseguito per ore e ore è ormai dietro di te, la soddisfazione è incommensurabile. Non hai vinto niente, non sei migliore di altri perché hai corso per 170 chilometri, non hai costruito né contribuito a costruire niente di utile. Ma hai capito che sei capace di desiderare qualcosa, di porti un obiettivo e di faticare (e tanto!) per raggiungerlo, e hai la certezza che prima o poi nella vita, quella vera, questo ti tornerà molto utile.
Sei ingeneroso nei confronti del fotografo che segue ogni tuo passo in queste imprese. Secondo me lui fa almeno una volta e mezza il tuo percorso per poterti seguire ed immortalare in ogni pertugio e in varie posizioni. Rendigli dunque giustizia.
RispondiElimina1) i fotografi sono più di uno
Elimina2) i fotografi si muovono con il quad e la jeep (anche)
3) uno dei fotografi, Mauro Mariotti, fa delle foto splendide e si è girato tutto l'Adamello palmo a palmo a piedi in tutte le stagioni :-)
Giustizia è fatta
EliminaGrande Dario!
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