Alle 20 di venerdì 28 luglio sono a Bolzano in piazza Walter, dietro il gonfiabile della Südtirol Ultra Sky Race, in compagnia di altre 200 persone: poco dopo la linea di partenza ci aspetta una schiera di tifosi – amici – parenti armati di centinaia di smartphone, tutti puntati verso di noi. Con la musica di Morricone che riempie la piazza, è uno di quei momenti in cui ti senti un privilegiato solo ad essere lì, dentro le transenne di partenza invece che fuori. Vuol dire che puoi almeno permetterti di sognare di farcela. Non è ancora detto che sia vero, ma è già molto.
Nei primi venti chilometri ci sono 2000 metri di dislivello, di cui i
primi da bersi tutto d'un fiato sulla strada ripidissima che sale a
Soprabolzano. Ultimo tuffo fra gli applausi e poi con i boschi e i
lama al pascolo inizia la notte, che è sempre dura. Io sono
finalmente là dove da settimane sognavo di essere, quando guardavo
il cielo stellato prima di andare a dormire, ma questa volta vorrei
essere lì che sto per andare a letto, invece ho davanti 100 km. È
la crisi numero 1. Il passo (troppo) arzillo che mi ha portato fino
al 15esimo chilometro si è afflosciato, non c'è nessun panorama a
cui aggrapparsi, e comincio a pensare seriamente che potrebbe anche
bastare così. Mi hanno raggiunto Luca e Franco, due amici di Trento:
per un po' la loro compagnia sembra funzionare, ma poi non riesco a
stargli dietro. Fortuna che non posso ritirarmi in mezzo a un prato
nella notte, e quando arrivo al ristoro il mio corpo capisce prima
della mia testa che il problema è che ho freddo, e mi mette addosso
quel paio di indumenti salvavita che ho nello zainetto.
Improvvisamente e inaspettatamente rinato, mangio due bocconi di
anguria e riparto.
La notte sembra meno buia, la via lattea mi fa da coperta e, anche se è ancora buio pesto, è come se in qualche modo finalmente riuscissi a percepire un po' della bellezza che c'è intorno a me: rocce, pascoli e decine di torrenti, che mi avvolgono, e nei quali tuffo continuamente le mani per bere o solo buttarmi un po' di acqua in faccia. Ritrovo i trentini e corriamo un bel po' in mezzo alla nuvole basse, concentrati allo spasimo sulle fettucce e i bollini segna percorso, e sei occhi sono comodissimi.
Poi però la luce si spegne di nuovo, non quella che ho in testa, ma quella che dovrei avere dentro: crisi numero 2. Sono rimasto di nuovo solo, la via Lattea dopo un'ora ha perso gran parte del suo fascino, e non riesco a trovare dentro di me una motivazione al mondo per proseguire. Sono stanco, ho sonno e non ne ho più voglia. Al ristoro del 40esimo chilometro mi ritiro. Non mi limito a pensarlo, lo faccio sul serio, il tizio che controlla i passaggi ha già tirato una riga sul mio numero. Ma poi viene fuori che in quel posto non c'è un letto e nessuno mi potrà portare a Bolzano prima di domani mattina. Sono le due di notte, non ho niente di asciutto da mettermi, non c'è niente su cui sdraiarsi più comodo di una panchina al freddo: tanto vale proseguire. Ritiro il mio ritiro e riparto.
Contrariamente ad ogni ragionevole previsione, invece di trascinarmi smadonnando per il mancato letto con piumone, mi ritrovo con molta più voglia di prima e procedo ad una andatura più che dignitosa per l'interminabile distesa di pietroni aguzzi successiva. Dietro le montagne il cielo inizia a schiarirsi e la consapevolezza di essere almeno riuscito a sconfiggere la prima notte, dà ancora più forza. Quando arrivo al ristoro successivo, al Flaggerschartenhutte, l'alba che colora di rosa le Dolomiti verso est, il mare di nuvole sotto, il cielo azzurro sopra, il sole che illumina le montagne intorno, e le acque del laghetto a fianco del rifugio, mi ricordano perché mi piace questo gioco, e perché a volte rinuncio al piumone volontariamente, per potermi permettere di essere ora.
Ma la gara continua, e come la vita ha i suoi alti e bassi. E oggi pare che i miei bassi siano parecchio più in forma dei miei alti. Nell'ultimo pezzo prima del ristoro di metà gara di Passo Pennes, la mia andatura ritorna ad essere meno che escursionistica, e la mia voglia sparisce di nuovo: crisi numero 3. È ormai giorno, la val Sarentino è piena di nuvole, molto probabilmente non si vedrà un gran panorama da qui alla fine (che a questa velocità rischia di essere mooolto lontana) e c'è anche il rischio di prendersi un temporale sulla testa. In più sono vari chilometri che non vado tanto d'accordo con il mio stomaco, mi sa che mi ritiro di nuovo.
Al Passo ritrovo Luca e Franco con le rispettive signore, che fanno di tutto per incoraggiarmi. I buoni motivi che mi danno per ripartire in quel momento mi lasciano del tutto indifferente; provo a mangiare una pasta al ragù, ma non va giù; nessuna delle bibite del ristoro mi dà un minimo di soddisfazione; mi faccio fare un massaggio, ma i 60 km che mancherebbero gli tolgono tutta la sconvolgente piacevolezza che ha di solito quello a fine gara. Il vero problema è che non ho grossi motivi per andare avanti, ma neanche per fermarmi, dato che non ho male da nessuna parte e sono abbastanza sicuro che fisicamente potrei farcela. Poi trovo una pastina in brodo incustodita (e fredda...) provo a mangiarmela e va giù: vuol dire che per lo meno non andrò in crisi di fame, e allora tanto vale ritirarsi alla prossima occasione.
La salita al Giogo delle Frane è più che abbordabile e poi ci sono 1300 metri di discesa in un vallone bellissimo, che mi fa pensare che anche questa volta valeva la pena proseguire. Un po' alla volta riesco anche a raggiungere “Maglietta Gialla”, un'atleta di cui fino a quel momento so solo che, oltre appunto ad avere una tenuta molto visibile, la sera prima aveva iniziato la prima salita assieme a me, ma aveva una velocità tale che dopo un quarto d'ora non l'avevo più vista.
Nelle successive 6 ore e 20 chilometri che correremo insieme, scoprirò anche che è francese, è la terza donna, era seconda ma si è addormentata e ha perso non sa quanto tempo, ha vissuto per anni in Corsica, corre con uno sponsor che l'ha spedita anche alla Marathon des Sables, ha un fidanzato che la aspetta a quasi tutti i ristori. E anche che correre con lei fa un gran bene a me e pare tornare utile anche a lei. Il nostro sodalizio sportivo ci porta prima in cima all'apparentemente irraggiungibile Alpler Nieder, poi lungo i sottostanti “sentieri” in costa (che a persone un po' più sane di mente degli iscritti a questa gara farebbero una paura da matti), poi sul bel traverso che scende all'Hirzerhütte (dove ormai di rododendri fioriti ne sono rimasti giusto un paio, alla faccia del mio desiderio pre gara di correre in mezzo al mare rosa), e poi sulla micidialissima salita verso il Giogo Piatto: ripida, interminabile, rocciosa, tecnica, allucinante, eccessiva (e c'è chi l'ha fatta in mezzo ai tuoni, i fulmini, la pioggia e la nebbia!). Nel tratto in piano che segue i successivi 1000 metri di discesa, la Francese Gialla scalpita e io le dico di non farsi problemi e di andare: tempo due minuti ed è scomparsa. La conseguenza quasi immediata è che io mi spengo, dimostrando l'importanza di avere una Musa Ispiratrice, oppure che a darmi forza era la mia funzione sociale, oppure, più probabilmente, che lei sapeva esattamente cosa stava facendo e quante energie le rimanevano, e io molto meno. Del resto, se lei è arrivata terza alla Transgrancanaria, un motivo ci sarà.
La crisi numero 4 arriva in modo meno improvviso delle precedenti, è più uno svacco progressivo. Continua ad essere tutto molto bello, il tracciato non è neanche più troppo impegnativo, ma io mi ritrovo a camminare su falsopiani sterrati in discesa, godendomi il sole e i prati, ma pensando che a quella velocità lì i 30 chilometri che mancano saranno infiniti e forse è meglio non cominciarli neanche.
Al ristoro della Meranerhütte arrivo quando Franco e Luca stanno ripartendo: vuol dire che non hanno molto vantaggio, magari riesco ancora a prenderli. Poi c'è una zuppa buonissima. Poi la tizia del ristoro, quando le dico che sono un po' lesso, mi dice “Du bist Super!”. Tutte queste cose insieme mi fanno riaccendere e ripartire di grande slancio. Troppo, per la precisione. Mi brucio nei successivi 5 km tutte le energie che mi sarebbero state utili per arrivare dignitosamente in fondo, e quando sono in cima a quella che finalmente è davvero l'ultima salita, in mezzo alle centinaia di omini di sassi, non riesco neanche a festeggiare l'inizio della discesa.
Basterebbe davvero averne ancora un po' per bersi tutto il tratto da lì a Bolzano: prati, boschi, pascoli, strade sterrate costeggiate da romantiche staccionate in legno, tutto in discesa o al limite in pianura, senza nessuna pendenza impegnativa, se non nell'ultimissimo tratto dopo San Genesio. Ma io non ne ho proprio più e cammino, cammino, cammino. E in più, devo lottare contro le allucinazioni che non sono allucinazioni: ho visto in un'altra gara che all'inizio della seconda notte il mio cervello comincia ad inventarsi un po' di cose, così cerco di farlo ragionare quando mi dice di vedere vele da surf appese ai rami, coppie in vestito tirolese appoggiate ad un albero, e altre cose di questo tipo. Solo che lungo la strada hanno messo delle installazioni artistiche, quindi la maggior parte di queste cose ci sono davvero, e quando lo capisco smetto anche di tentare di capire cosa è vero e cosa no.
La notte sembra meno buia, la via lattea mi fa da coperta e, anche se è ancora buio pesto, è come se in qualche modo finalmente riuscissi a percepire un po' della bellezza che c'è intorno a me: rocce, pascoli e decine di torrenti, che mi avvolgono, e nei quali tuffo continuamente le mani per bere o solo buttarmi un po' di acqua in faccia. Ritrovo i trentini e corriamo un bel po' in mezzo alla nuvole basse, concentrati allo spasimo sulle fettucce e i bollini segna percorso, e sei occhi sono comodissimi.
Poi però la luce si spegne di nuovo, non quella che ho in testa, ma quella che dovrei avere dentro: crisi numero 2. Sono rimasto di nuovo solo, la via Lattea dopo un'ora ha perso gran parte del suo fascino, e non riesco a trovare dentro di me una motivazione al mondo per proseguire. Sono stanco, ho sonno e non ne ho più voglia. Al ristoro del 40esimo chilometro mi ritiro. Non mi limito a pensarlo, lo faccio sul serio, il tizio che controlla i passaggi ha già tirato una riga sul mio numero. Ma poi viene fuori che in quel posto non c'è un letto e nessuno mi potrà portare a Bolzano prima di domani mattina. Sono le due di notte, non ho niente di asciutto da mettermi, non c'è niente su cui sdraiarsi più comodo di una panchina al freddo: tanto vale proseguire. Ritiro il mio ritiro e riparto.
Contrariamente ad ogni ragionevole previsione, invece di trascinarmi smadonnando per il mancato letto con piumone, mi ritrovo con molta più voglia di prima e procedo ad una andatura più che dignitosa per l'interminabile distesa di pietroni aguzzi successiva. Dietro le montagne il cielo inizia a schiarirsi e la consapevolezza di essere almeno riuscito a sconfiggere la prima notte, dà ancora più forza. Quando arrivo al ristoro successivo, al Flaggerschartenhutte, l'alba che colora di rosa le Dolomiti verso est, il mare di nuvole sotto, il cielo azzurro sopra, il sole che illumina le montagne intorno, e le acque del laghetto a fianco del rifugio, mi ricordano perché mi piace questo gioco, e perché a volte rinuncio al piumone volontariamente, per potermi permettere di essere ora.
Ma la gara continua, e come la vita ha i suoi alti e bassi. E oggi pare che i miei bassi siano parecchio più in forma dei miei alti. Nell'ultimo pezzo prima del ristoro di metà gara di Passo Pennes, la mia andatura ritorna ad essere meno che escursionistica, e la mia voglia sparisce di nuovo: crisi numero 3. È ormai giorno, la val Sarentino è piena di nuvole, molto probabilmente non si vedrà un gran panorama da qui alla fine (che a questa velocità rischia di essere mooolto lontana) e c'è anche il rischio di prendersi un temporale sulla testa. In più sono vari chilometri che non vado tanto d'accordo con il mio stomaco, mi sa che mi ritiro di nuovo.
Al Passo ritrovo Luca e Franco con le rispettive signore, che fanno di tutto per incoraggiarmi. I buoni motivi che mi danno per ripartire in quel momento mi lasciano del tutto indifferente; provo a mangiare una pasta al ragù, ma non va giù; nessuna delle bibite del ristoro mi dà un minimo di soddisfazione; mi faccio fare un massaggio, ma i 60 km che mancherebbero gli tolgono tutta la sconvolgente piacevolezza che ha di solito quello a fine gara. Il vero problema è che non ho grossi motivi per andare avanti, ma neanche per fermarmi, dato che non ho male da nessuna parte e sono abbastanza sicuro che fisicamente potrei farcela. Poi trovo una pastina in brodo incustodita (e fredda...) provo a mangiarmela e va giù: vuol dire che per lo meno non andrò in crisi di fame, e allora tanto vale ritirarsi alla prossima occasione.
La salita al Giogo delle Frane è più che abbordabile e poi ci sono 1300 metri di discesa in un vallone bellissimo, che mi fa pensare che anche questa volta valeva la pena proseguire. Un po' alla volta riesco anche a raggiungere “Maglietta Gialla”, un'atleta di cui fino a quel momento so solo che, oltre appunto ad avere una tenuta molto visibile, la sera prima aveva iniziato la prima salita assieme a me, ma aveva una velocità tale che dopo un quarto d'ora non l'avevo più vista.
Nelle successive 6 ore e 20 chilometri che correremo insieme, scoprirò anche che è francese, è la terza donna, era seconda ma si è addormentata e ha perso non sa quanto tempo, ha vissuto per anni in Corsica, corre con uno sponsor che l'ha spedita anche alla Marathon des Sables, ha un fidanzato che la aspetta a quasi tutti i ristori. E anche che correre con lei fa un gran bene a me e pare tornare utile anche a lei. Il nostro sodalizio sportivo ci porta prima in cima all'apparentemente irraggiungibile Alpler Nieder, poi lungo i sottostanti “sentieri” in costa (che a persone un po' più sane di mente degli iscritti a questa gara farebbero una paura da matti), poi sul bel traverso che scende all'Hirzerhütte (dove ormai di rododendri fioriti ne sono rimasti giusto un paio, alla faccia del mio desiderio pre gara di correre in mezzo al mare rosa), e poi sulla micidialissima salita verso il Giogo Piatto: ripida, interminabile, rocciosa, tecnica, allucinante, eccessiva (e c'è chi l'ha fatta in mezzo ai tuoni, i fulmini, la pioggia e la nebbia!). Nel tratto in piano che segue i successivi 1000 metri di discesa, la Francese Gialla scalpita e io le dico di non farsi problemi e di andare: tempo due minuti ed è scomparsa. La conseguenza quasi immediata è che io mi spengo, dimostrando l'importanza di avere una Musa Ispiratrice, oppure che a darmi forza era la mia funzione sociale, oppure, più probabilmente, che lei sapeva esattamente cosa stava facendo e quante energie le rimanevano, e io molto meno. Del resto, se lei è arrivata terza alla Transgrancanaria, un motivo ci sarà.
La crisi numero 4 arriva in modo meno improvviso delle precedenti, è più uno svacco progressivo. Continua ad essere tutto molto bello, il tracciato non è neanche più troppo impegnativo, ma io mi ritrovo a camminare su falsopiani sterrati in discesa, godendomi il sole e i prati, ma pensando che a quella velocità lì i 30 chilometri che mancano saranno infiniti e forse è meglio non cominciarli neanche.
Al ristoro della Meranerhütte arrivo quando Franco e Luca stanno ripartendo: vuol dire che non hanno molto vantaggio, magari riesco ancora a prenderli. Poi c'è una zuppa buonissima. Poi la tizia del ristoro, quando le dico che sono un po' lesso, mi dice “Du bist Super!”. Tutte queste cose insieme mi fanno riaccendere e ripartire di grande slancio. Troppo, per la precisione. Mi brucio nei successivi 5 km tutte le energie che mi sarebbero state utili per arrivare dignitosamente in fondo, e quando sono in cima a quella che finalmente è davvero l'ultima salita, in mezzo alle centinaia di omini di sassi, non riesco neanche a festeggiare l'inizio della discesa.
Basterebbe davvero averne ancora un po' per bersi tutto il tratto da lì a Bolzano: prati, boschi, pascoli, strade sterrate costeggiate da romantiche staccionate in legno, tutto in discesa o al limite in pianura, senza nessuna pendenza impegnativa, se non nell'ultimissimo tratto dopo San Genesio. Ma io non ne ho proprio più e cammino, cammino, cammino. E in più, devo lottare contro le allucinazioni che non sono allucinazioni: ho visto in un'altra gara che all'inizio della seconda notte il mio cervello comincia ad inventarsi un po' di cose, così cerco di farlo ragionare quando mi dice di vedere vele da surf appese ai rami, coppie in vestito tirolese appoggiate ad un albero, e altre cose di questo tipo. Solo che lungo la strada hanno messo delle installazioni artistiche, quindi la maggior parte di queste cose ci sono davvero, e quando lo capisco smetto anche di tentare di capire cosa è vero e cosa no.
Finisco la gara assieme ad uno svedese che era iscritto alla “corta”
(solo 69 km...) e che raccatto nel bosco, poco prima dell'ultimo
ristoro, lesso più di me. Non è la Francese Gialla, ma è comunque
meglio che correre da solo, e gli ultimi 5 chilometri passano molto
più in fretta di quello che temevo. A 500 metri dall'arrivo raggiungo e supero agevolmente un altro
concorrente, conquistando la 32esima posizione in 26 ore 47 minuti e
22 secondi, a 49 minuti da Franco e Luca, a quasi due ore dalla
Francese Gialla (che è arrivata seconda), e a sole 8 ore e spiccioli
dal primo, Daniel Jung.
Il libretto di presentazione della gara diceva:
"La corsa effettua su un tracciato parzialmente molto impegnativo e richiede il passo sicuro, l‘assenza di vertigini, un'ottima forma psico-fisica, l‘esperienza nelle corse estreme in montagna, una buona capacità di orientamento e sicurezza notturna e con nebbia”.
Minchia quanto era vero!
Il libretto di presentazione della gara diceva:
"La corsa effettua su un tracciato parzialmente molto impegnativo e richiede il passo sicuro, l‘assenza di vertigini, un'ottima forma psico-fisica, l‘esperienza nelle corse estreme in montagna, una buona capacità di orientamento e sicurezza notturna e con nebbia”.
Minchia quanto era vero!
Vocine dicono che avesse detto: "du fist super" ed è per quello ti sei dato una mossa...
RispondiEliminaComunque tanta invidia.