
A L'Aquila, in una coppa Italia sprint senza Re Carlo, c'era una sola cosa che io come orientista potessi fare: vincere. E allora ho vinto. Una gara divertente, con una prima parte in un parco pieno di edifici, non irresistibile ma non banale se preso in velocità, un trasferimento fettucciato per passare in città, una parte in centro storico preceduta da rampone di avvinamento, e poi trasferimento e due punticini in un parco, tanto per allungarla un pelo. A me è piaciuta proprio tanto, chissà se Zonato approverà... Primo io, secondo Andrea Gobber, terzo Eddy Sandri.
Ma se come orientista il mio dovere era vincere, come ori-blogger (praticamente unico esemplare ancora in vita, o almeno in attività), il mio dovere è quello di provare a raccontarvi l'Aquila, una città ferita.

Ho avuto la fortuna di poterla girare un paio di volte da solo, e una volta con il futuro suocero (? :-)) di una orientista trentina, a varie ore del giorno e della notte, ed è stata una esperienza molto forte. Arrivando dall'autostrada lo "skyline" di L'Aquila è una selva di gru, 72, dice chi sa. Che sono tantissime, ma una goccia, su un'intera città. Il centro è un luogo fantasma. Pochissimi i bar che hanno riaperto, ancora meno i negozi, e la sera c'è una sola via illuminata, quella principale. Il resto è buio e silenzio, o quasi. Ci sono alcune case e alcuni palazzi finiti di ristrutturare, che dicono di quanto sarà bella la città quando sarà riscotruita. Ma ci sono tantissime case che sono praticamente identiche a come erano il 7 aprile del 2009, il giorno dopo il terremoto, che dicono di quanto sarà ancora lunga la strada per arrivare lì.

Ci sono case con la porta aperta, con ancora i mobili e le stoviglie, che sembrano allo stesso tempo essere state abbandonate ieri e da anni. Altre (moltissime) farcite e circondate di tubi e cavi d'acciaio, molte delle quali non sembrano essere in nessun modo recuperabili. Si dice che l'uso e l'abuso di tubi dalmine e ponteggi per puntellare, anche quello che non aveva senso puntellare, sia stato frutto di un preciso disegno speculativo di persone molto in alto. Si dice anche, ma in modo molto più circostanziato, che la intensa nevicata di alcuni anni fa abbia sfondato i tetti di molte case puntellate, che sono ormai contenitori vuoti destinati solo alla demolizione. Al di là delle responsabilità, il risultato è davvero desolante, soprattutto se è vero che, come dicono, stanno finendo i cantieri avviati qualche anno fa, ma non ne stanno più aprendo di nuovi, perché sono finiti i soldi delle donazioni, mentre per quelli dallo stato si aspetta una legge ad hoc, che non è ancora riuscita ad uscire dal parlamento.

Intanto moltissime persone (il 75%?) vivono ancora nelle abitazioni "provvisorie" costruite dal governo in quelle "new town" che hanno suscitato entusiasmi e feroci critiche. Senza dubbio hanno consumato territorio che prima era agricolo, sono costate parecchio (sui 2.700 euro al metro quadrato) e quando le persone potranno tornare nelle loro case non sarà facile ricollocare sul mercato 4.500 abitazioni. Però hanno dato un tetto in tempi rapidissimi, e in modo più dignitoso di un container, a tanta gente che ci abita già da 6 anni e chissà per quanto ancora. Alcune sono molto belle, altre molto meno, alcune sono state costruite come si deve, altre molto meno.
L'Aquila oggi è una città che fa fatica a ritrovare la speranza del futuro, dove chi l'ha sempre vissuta, girando per il centro trova dei vuoti dove ieri c'erano edifici che avevano popolato la sua vita fino a ieri, delle serrande chiuse e delle luci spente dove andava a mangiare la pizza, e chissà se e dove riapriranno mai, una foresta di tubi dalmine attorno alle colonne del porticato sulla via centrale, ciascuna delle quali era il punto di ritrovo di una compagnia diversa di giovani. Ma è anche una città con molta dignità, che ogni anno celebra con una processione il terremoto e le sue vittime, che tiene molto pulite tutte le vie del centro, sia quelle poche sveglie, sia quelle molte addormentate, e che, almeno nelle persone che ho incontrato io, sorride.
Chi la vive, dice che sarebbe bello che destra, centro e sinistra buttassero le loro bandiere e si rimboccassero le maniche per ridare insieme un futuro alla città. È l'augurio che faccio anch'io a tutti loro, e non solo a loro.