25 dicembre 2019

Intervall-o

Piccolo intervallo fra le avventure TOR-iane, per raccontare le prime due tappe dell'Ori-cup Inverno, che mi hanno riportato a giocare con le lanterne. Risultati tecnicamente rivedibili (o meglio, tristemente già visti un sacco di volte...) ma atleticamente non malissimo, considerando che correvo anche contro gente che non era ancora nata quando io iniziavo l'università).

Oricup - Samone
Gli dei dell'orienteering fanno terminare la pioggia 5 minuti prima dell'inizio della gara, dopo che pioveva da giorni. Noi ne approfittiamo correndo su e giù per le stradine di Samone, provincia di Strigno, Valsugana. La formula è divertente, gara sprint un pelo allungata + finale fra i primi 8.


Partenza in salita che esalta le mie doti di salitista, e alla 2 prima scelta che esalta le mie doti di pirla. Mi lancio su per la salita invece di andare largo risparmiando fiato, gambe e tempo. Poi sono un po' impreciso sulla 3, sbaglio scelta per la 5 (il muretto attraversabile da sotto in realtà era un po' inattraversabile) per la 11 (la palta mangia scarpe rallentava parecchio la corsa giù per il giallino, meglio dalla strada) e per la 14 ho perso un po' di tempo tentando di andare in curva su prato pendente e paltoso invece di passare da sopra. Morale della favola, chiudo terzo, 4'' dietro a Cipriani (ah, dolore...) e 29'' dietro a Pietro Palumbo (ok, ci sta).


A forza di non uscire troppo presto dalla stanza calda, finisce che inizio la finale senza riscaldamento e più ancora che le gambe è la testa a non essere in temperatura. Per tutta la prima carta praticamente corro dietro alla cartina, tipo quelli che in sella ad un cavallo non riescono a far altro che tentare di non cadere mentre lui corre e va dove vuole. Mi faccio anche "convincere" da Boneccher ad attraversare due volte un recinto non attraversabile per entrare e uscire alla 4: in carta vedo che non si può, ma il cancello è aperto, lui ci va e io non resisto alla tentazione di seguirlo.
Comunque, in uscita dalla 9 sono alle calcagna di Cipriani, spingo più che posso per la 10 e lo passo,  ho Rossetto poco davanti e c'è davanti una rampa assassina per la 11 dove penso che lui cederà e io no. Io effettivamente non cedo, ma non cede neanche lui, anzi allunga. Chiudo quasi 50'' dietro a Palumo, mezzo minuti dietro a Luca Libardoni, 10'' dietro a Riccardo Rossetto, e 14'' davanti a Cipriani :-)

Il giorno dopo il Trent-o organizza il tradizionale Ori-bells, quello che si correrebbe con il cappello da Babbo Natale, che però a me mi fa sudare troppo e non lo metto.
Quindi non posso neanche dare la colpa al berretto se butto nel cesso la gara già 50 metri dopo il via, preoccupato di scattare in testa (mass start) appena partiti, invece che di leggere la cartina quel minimo sindacale necessario a capire che la 2 non è la 1 e che in ogni caso c'erano tre recinti non attraversabili che rendevano idiota la scelta di sinistra anche se avessi dovuto andare alla due.
Da lì in poi spingo quanto posso, che basta solo per arrivare primo dei non più giovani, ma non a non farmele suonare in ogni singola lanterna della gara dai giovincelli che chiudono ai primi tre posti. Beata gioventù.


19 dicembre 2019

Il mio TOR(mentato) X – seconda puntata

Che al TOR ci avevo fatto solo un pensierino era vero. Mi era venuta voglia di provare a vedere se mi prendevano, ma non mi ero chiesto seriamente se io tutto il giro delle alte vie numero 2 e numero 1 della Val d’Aosta pensavo di essere in grado di correrlo. Non mi ero neanche chiesto seriamente se io lo volevo, correre. 

Ero davvero preoccupato che fosse Troppo, e il dubbio si era rinforzato quando non ero neanche riuscito ad arrivare in fondo ad un filmato che raccontava la gara. La concomitanza della partenza del TOR con i campionati italiani sprint e long di orienteering poi, mi pesava un sacco, e per parecchi giorni mi ero chiesto seriamente se non fosse meglio provare farsi spostare sul Tot Dret, la gara da 130 km che percorre il tratto finale del TOR: sarei arrivato a correre gli italiani sprint e long, e avrei assaggiato la Val d’Aosta, con la certezza di godermi la gara dall’inizio alla fine.

Però, ca**o, e se poi l’occasione di correre il Tor des Geants non mi capita più?

No, non potevo correre il rischio di passare il resto dei miei giorni a mangiarmi le mani (e a sentirmi dare del co***one da quelli a cui lo avessi raccontato). Quindi nuovo mood: non so se sono in grado di arrivare in fondo, ma provarci ci provo eccome. 

Così ho continuato ad allenarmi, evitando solo che il TOR diventasse il chiodo fisso che si mangiava tutto il resto, godendomi le uscite in solitaria, le gare di orienteering e, all’inizio dell’estate, due gare splendide (la Ultradolomites e il Trail del Grossglockner), ottime “lunghissimi” di avvicinamento. 

Arriva agosto, non ho ancora fatto uscite di più di 24 ore, ed è troppo tardi per farle. Così cerco almeno di stancarmi per un po’ di giorni di seguito, e approfitto della nostra vacanza cicloturistica familiare: per 5 giorni aggiungo ai 50-60 km quotidiani di bici, un’uscita di corsa di un’ora o due, rigorosamente su percorso montano. Al quinto giorno, al rientro da 2h20’ per un totale di 16 km e 700 metri di dislivello per lo più su sentiero, mentre orgogliosissimo della mia tenacia mi godo un bagno gelato nell’Isonzo, mi metto a fare due conti, scoprendo che:
  1. sommando tutti i chilometri che ho fatto in bici e di corsa in 5 giorni, non arrivo alla distanza complessiva del Tor  
  2. il tempo trascorso da quando siamo partiti per il giro in bici a quando ho messo il sedere nell’Isonzo, che mi sembra lunghissimo, è meno di quello che ragionevolmente mi servirà per arrivare in fondo al Tor 
  3. in questi cinque giorni ho dormito 8 ore per notte in un vero letto con un vero materasso, mentre al Tor un vero letto e un vero materasso non li avrò mai, e comunque per arrivare a 8 ore di sonno le notti dovrò probabilmente sommarle tutte 
Oltre a ridimensionare parecchio la grandiosità del mio allenamento, mi chiedo per l’ennesima volta se io sia in grado di arrivare vivo in fondo a Quella Cosa e non so rispondermi.

E purtroppo il peggio deve ancora arrivare.

A pagina 138 di quel capolavoro assoluto della letteratura sportiva che è “Confessioni di un Runner d’alta quota”, l’Autore scrive:  

Sono completamente immerso in un qualcosa che si potrebbe chiamare “depressione”, o “esaurimento” o qualcosa di simile, e non riesco a trovare il bandolo della matassa per uscirne. L’unica cosa chiara è che il me stesso di prima non va più bene, ma non ne ho ancora uno nuovo e non so come costruirlo. 

Sono passati tre anni da quanto ho scritto quelle righe, e mi ci ritrovo dentro di nuovo, questa volta con la spiacevole ulteriore compagnia di una insonnia feroce, che quindici giorni prima della partenza del Tor mi sveglia tutte le notti alle 3.30 o anche prima, e mi tormenta con pensieri cupissimi da lì al momento di alzarmi (che mi accompagnano poi anche per il resto della giornata).

Sono giorni bruttissimi, mi sento uno straccio, mi dico che già è una gara folle di suo, e arrivarci avendo dormito una media di 4 ore per notte per le due settimane precedenti, e con le energie mentali azzerate, sarebbe quasi un suicidio. Allo stesso tempo però penso che peggio di così non può andare e che se c’è una cosa al mondo che potrebbe darmi un po’ di pace sono quei sentieri fra quelle montagne.

Alla fine, anche grazie all’aiuto di una amica che mi costringe ad ammettere che il Tor lo desidero da morire, decido di provarci. Ci metto due giorni per preparare la borsa, facendo più fatica di quella che ho fatto a correre gli 87 km della Ultradolomites, ma sabato 7 settembre parto per Courmayeur.

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13 dicembre 2019

Il mio TOR(mentato) X – prima puntata

Non avevo mai pensato di correre il TOR.

Già è un po’ da folli correre in montagna, magari per un giorno intero; ancora di più farlo anche di notte, magari per più di 150 km. Ma farlo per vari giorni e varie notti, mi sembrava proprio Troppo. Non avevo paura di non farcela, quello che mi spaventava era l’idea di arrivare ad essere stufo molto prima della fine. Di sbucare da una curva di sentiero sassoso, trovarmi davanti un ghiacciaio o un 4.000 e non ritrovarmi con la mascella a penzoloni. Di correre su un crinale all’alba o al tramonto, con l’erba gialla piegata dal vento al bordo del sentiero, e non sentire quello sfrigolio lungo la spina dorsale. Non avevo mai pensato di correrlo, ma quando mai le cose più belle che ci capitano sono entrate nella nostra vita passando dalla testa. 

Il TOR è una malattia dell’anima, che può manifestarsi in forma fulminante, o avere una incubazione lunghissima. Sì, proprio come l’Amore. Io, dal TOR, pensavo di essere immune, anche se la Borsa Gialla mi piaceva da matti, anche se pensavo che la Valle d’Aosta fosse un posto in cui prima o poi avrei dovuto andarci a correre, anche se avevo letto tutti i libri che ne parlavano, anche se ogni volta che ho giurato di non fare una cosa, ho finito per farla. Solo che nel novembre 2018 la rivista Spirito Trail ha pubblicato uno speciale sul TOR, e quelle foto a due pagine con quei panorami incredibili si sono infilate dove i miei anticorpi nulla potevano fare e mi sono ammalato anch’io. Ma non volevo ancora ammetterlo. 

Così invece di precipitarmi ad iscrivermi alla lotteria per tentare di iscrivermi, l’ho messa sul professionale velleitario. Io scrivo di trail e ogni tanto riesco a fare il giornalista in gara. Ho pensato che potevo provarci col TOR, che tanto mi avrebbero detto di no, e io mi sarei messo il cuore in pace. 

Al mio goffo scritto di perlustrazione, la insperatamente pronta risposta era stata: “ciao Dario, grazie della tua proposta. Dovremo riparlarne, più che volentieri, alla fine dell’inverno. È infatti a fine marzo che decidiamo l’assegnazione delle wild card per i giornalisti che vogliono prendere parte al Tor. Io comunque ho preso nota, ma tu riscrivimi a fine marzo e vediamo come organizzarci”. 

A “fine marzo” mancavano più di cinque mesi: sarebbero stati più o meno una eternità, per uno che aspettasse una risposta dal suo amore, fortuna che io ero solo uno che ci aveva fatto un pensierino. In ogni caso avrei dovuto comunque allenarmi come se nel 2019 avessi corso il TOR, perché una gara di 330 km e 30.000 metri di dislivello mica la prepari da marzo a settembre, consapevole però che poteva tranquillamente finire come tutte quelle altre volte, negli ambiti più disparati, in cui un “ti faremo sapere”, apparentemente molto ben augurante, era finito in lacrime.

Dopo una garetta da 165 km sul Carso a gennaio, tanto per non impigrirsi durante l’inverno, e un altro po’ di chilometri e dislivelli qua e là, arriva il 25 marzo, che a me pare abbastanza “fine marzo” da farmi risentire. Dopo nove giorni senza una risposta, benché io sia solo uno che ci ha fatto un pensierino, trasgredendo la più elementare regola del corteggiamento, mi faccio sentire io, con quella ironia finto distaccata, che, se si fosse trattato davvero di conquistare una donna, sarebbe stata la mia pietra tombale: “Ciao, temo che il vostro silenzio voglia dire qualcosa come "La ringraziamo per la sua proposta di collaborazione ma abbiamo valutato che bla bla bla bla niet!". Però avrei bisogno di vederlo scritto, così mi metto il cuore in pace :-)”. 

Ma per fortuna non si tratta di una spasimata a cui scaldare il cuore e prima mi dicono di avere ancora un po’ di pazienza e poi il 14 aprile arriva La Notizia. 

“Ciao Dario, 
ti è stata assegnata ufficialmente la wild card press per partecipare al Tor 2019.
Nei prossimi giorni ti arriverà una e-mail con i dettagli. 
Intanto buon lunedì e buoni allenamenti”

Al che io, che ero davvero ancora convinto di averci solo fatto un pensierino, mi rendo conto di essere ufficialmente iscritto alla decima edizione del Tor de Geants, il TOR X per gli amici, e vado un po’ in ansia.

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8 dicembre 2019

Il mio Cinghiale

Ormai più di un anno fa mi ero divertito un sacco a correre nella palta e sotto la pioggia laggiù in mezzo agli Appennini, tanto che ho pensato bene di tornarci anche quest'anno, al Cinghiale, che non è un animale, come canta non ho proprio capito perché Max Pezzali in una delle sue ultime canzoni,  ma il nome dell'ultimo vero ultra trail dell'anno, quello per gente a caccia di punti ITRA o preoccupata di cadere in crisi di astinenza. Io ero fra i secondi.

Così anche quest'anno a fine novembre scendo a Palazzuolo sul Senio per prendere il via nella gara da 93 km, che quest'anno è composta da 3 giri, rispettivamente da 42, 21 e 30 km, o giù di lì. Annunciano molta meno palta e molta meno acqua dell'anno scorso e, dato che nel 2018 sono inaspettatamente arrivato nei primi 10, al fuocherello che mi scalda prima di partire (ma è molto meno freddo di quello che avevo temuto la sera prima) coltivo propositi agonisticamente bellicosi.

Che durano pochissimo. Dopo il primo chilometro dove i primi partono come le schioppettate, e senza avere per niente l'aria di quelli che esploderanno poco dopo, mentre il mio non-amico buio mi accompagna su per la prima salita, mi rendo conto che è meglio pensare di arrivare in fondo, che 90 km sono pur sempre 90 km, e io ultimamente non mi sono neanche allenato un granché. Mi superano a frotte e per come mi sento non mi pare proprio il caso di corrergli dietro. Vedremo se qualcuno riuscirò a pigliarlo più tardi.

Il primo giro è proprio lungo: forse il fatto che abbia gli stessi km di una maratona, con l'aggiunta di qualche migliaio di metri di dislivello poteva farmelo sospettare. Ci regala una bella aurora (ma già l'alba è coperta, non esageriamo con il sole) e innumerevoli su e giù fra gli Appennini, con un notevole "su" condito di sassoni, un guado carino di un torrente, e pochi altri scorci davvero memorabili.

Quando si torna a Palazzuolo per la prima volta, il tracciato passa vicinissimo a dove ho materassino e sacco a pelo, e confesso che un briciolo di tentazione mi assale. Però al ristoro ho appena mangiato come un bue (raramente in una gara di trail si è vista una tale varietà e ricchezza ai ristori!) e se mi fermassi rischierei di rovinare la linea. Riparto così per il secondo giro, che è il più corto, ma anche, a mio modesto parere, il più noioso, con una successione di salite su colline che sembrano sempre la stessa.  Ad interrompere un po' la routine ci pensa Lisa Borzani, che incontro più o meno a metà giro. 

Per chi non la conoscesse, Lisa Borzani è una che fra le altre cose ha vinto un paio di TOR de Geants. Nel 2016 ci ha messo 91 ore: tanto per avere un'idea, io, se fosse andato tutto benissimissimo, potevo mettercene forse 110. Purtroppo per lei, quest'anno si è infortunata e sta ancora riprendendosi, così non fa ancora gare "serie". Doveva partecipare alla 30 km, ma poi ha deciso di fare un pezzo col suo compagno, che corre la 90, e per caso ci ho fatto un pezzo insieme anch'io. Il fatto che lei avesse dei polmoni da TOR, ma corresse a ritmo da me, le permetteva di avere una riserva di fiato praticamente inesauribile, quindi ha parlato ininterrottamente per 10 chilometri. Così stando dietro ai suoi aneddoti me la sono passata abbastanza, e a quel punto, una volta tornato a Palazzolo, mancava solo un giro.

Chepperò era da 30 km e duemila e rotti metri di dislivello, quindi non proprio una gitarella. Oltretutto questo giro pensavo di ricordarmelo dall'anno scorso, ma come al solito me ne ricordavo solo alcuni pezzi, così sembrava allungarsi mano a mano che andavo avanti. Attorno al 90esimo mi è anche morto il gps, così non potevo più affidarmi neanche a lui per capire quanto mancasse alla fine, e Palazzuolo, visto dal lato da cui si arrivava nell'ultimo giro, faceva un inquietante effetto "aeroporto in città".  

Avete presente quando si atterra in un aeroporto di quelli in mezzo alle città, in cui guardando fuori dal finestrino fino all'ultimo si vedono tetti di case, e, anche se sai che è impossibile che il pilota faccia una cosa così stupida, fino all'ultimo hai il dubbio che l'aereo sia sceso troppo presto e finirai sul tetto di una casa, ma poi all'ultimissimo compare la pista e tiri un respiro di sollievo? Ecco, Palazzuolo vista da quella parte è una roba simile, perché fino a pochissimo dall'arrivo non vedi una luce che sia una, e anche se continui a seguire le balise, che ti assicurano che sei sulla strada giusta, dentro di te (dentro il tuo cervellino e le tue gambine che si sono già sciroppati 90 km) rimane fino all'ultimo il dubbio di essere scesi nella valle sbagliata e di dover quindi risalire e riscendere un'altra volta.

Poi le luci compaiono, e subito dopo anche il paese, e a quel punto l'arrivo è talmente vicino che non arriveresti neanche a farti bello, se ce ne fosse il bisogno. Nel mio caso non ce n'è, perché è buio, perché i primi sono arrivati da mo' (da più di 4 ore...), e anche il decimo è arrivato da un po' (da quasi 50 minuti). Io, che pensavo di aver corso proprio bene nell'ultimo giro, scopro solo un po' di tempo dopo l'arrivo che mi sono piazzato al 14esimo posto, e scopro solo qualche giorno dopo, che al 63esimo km ero a una mezzora dal mio "riferimento cronometrico" (Giorgio, un triestino che da un anno a questa parte si allena come un forsennato, tanto che ho smesso di seguirlo su FB perché mi deprimeva troppo vedere quanto più di me si allena), mentre alla fine mi ha dato un'ora e venti. Che vuol dire che nell'ultimo giro non sono andato bene per niente. Pazienza.

Me ne torno a casa con la conferma che gli Appennini non sono proprio il mio posto, ma che piuttosto che stare a casa a pensare all'anno prossimo, anche il Cinghiale va benissimo. Anno prossimo che, come il 2018, inizierà prestissimo, dato che il 5 di gennaio sarò già sul Carso a tentare di ibernarmi al Trail della Bora, quest'anno in versione "iper", non balisato, con partenza da Gorizia e con 10 km e 4000 metri di dislivello in più del banale "ultra" dell'anno scorso. 

Potrei anche riuscirci.