26 dicembre 2020

San Vili al solstizio di inverno

Come si sa, per superarle, le notti, vere o figurate che siano, bisogna attraversarle. Così ho pensato di festeggiare il solstizio e i giorni che tornano ad allungarsi, passando una intera notte fuori, la mia settima di quest'anno, record assoluto di tutta la mia vita (è proprio vero che a invecchiare si dorme di meno...). 

Dato che è pur sempre inverno, ho pensato che era meglio rimanere su un tracciato "un po' urban", e ho scelto il Cammino di San Vili, da Madonna di Campiglio a Trento, che passa per moltissimi paesi e non si allontana mai molto dalla civiltà (che è poi anche il principale punto di debolezza di questo cammino, molto vario come paesaggi e tipo di fondo, ma senza quella sensazione di "essere uscito dal mondo", dei giri più belli).

Alle 19.35 la corriera mi deposita in centro a Madonna di Campiglio, che al 18 di dicembre è deserta come negli anni "normali" alle 4 di notte in aprile. Fa freschetto, c'è un sacco di neve, e per un attimo mi viene il dubbio di avere fatto una cazzata. Poi parto, il tracciato che voglio fare è per lo più abbastanza battuto da non fare troppa fatica per andare avanti, e già in uscita dal paese sono sufficientemente in temperatura e nel "mood" da cominciare a divertirmi. Sarà una lunga notte e ho intenzione di godermela tutta.

Dopo il primo tratto nevoso nel bosco fino a Pinzolo (km 11) in discesa nel bosco, da lì a Villa Rendena, a più o meno 25 km e 3 ore di viaggio, si sta in ciclabile, discesa non molto pendente, neve poca o dura. Da lì ci sarebbe la variante bassa, ma io ho voglia di buio e stelle e quindi salgo. Di stelle ne incontro tantissime, di buio meno, perché il buio vero in natura non esiste, neanche in questa notte senza luna (la mia prima del 2019, tutte le altre volte c'era luna piena!). Mi incanto per un po' a guardare il cielo e contare le stelle cadenti attorno ai 1000 di altitudine, ma è troppo freddo per fare i romantici, ancora meno per disperdersi nel bosco, ma in un tratto le segnaletiche SAT sono talmente scadenti da essere a prova di orientista e trali-runner di una certa esperienza. Dai miei calcoli la cosa più sensata da fare è proseguire lungo la massima pendenza, e prima o poi si arriverà alla strada di Passo Daone. 

Purtroppo prima della strada che sale al passo, c'è un dosso che mi manda un po' in crisi, ma mi salvano delle tracce di ciaspole che incontro, e dopo averle seguite per un po' nella direzione sbagliata, ritorno sui miei passi e sulla retta via. Inspiegabilmente si sale ancora un po' (ma non ero già più un alto del passo?) e poi finalmente si scende verso Larzana e poi Ragoli. Qui manco un bivio, non segnalato, per i quattro masi di Iron (bellissimi, ci sono stato qualche anno fa di giorno) e per punizione mi becco 7 km di strada provinciale fino a Stenico, abbastanza deserta (sono più o meno le 04:30) e quasi piana.

Piccola botta di freddo in uscita da Stenico, che mi spinge a mettermi addosso tutto quello che ho, poi mi riprendo dal freddo e cedo al sonno, su una panchina fuori da una casa di Seo, dotata persino di materassino. Accorcio il mio microsonno classico di 12 minuti a soli 7, perché continuo a svegliarmi per il freddo (e sacrificare il mio telo termico, che ho ormai sperimentato tenere un gran bel calduccio, per un solo pisolino mi sembra un peccato, dato che una volta usato non c'è verso di ripiegarlo), ma riparto comunque sufficientemente ritemprato da godermi le prime luci del nuovo giorno.

A casa manca ancora un bel po', sono poco meno che a metà strada, però ho passato la notte, è finita la neve, e da qui l'ho già fatta varie volte. In pratica, è finita l'avventura e rimane solo da pedalare. Fortunatamente le gambe sono ancora di buon umore e mi accompagnano senza protestare fino a casa, convinte anche da una abbondante colazione al bar di Ranzo, che apre alle 9 (quando arrivo io) e ha le brioches pronte solo alle 9.30, ma le recupero al supermercato e torno lì per un cappuccino e un caffé lungo che faranno da benzina fino a casa. A Ranzo dimentico invece di far fare colazione al mio gps che si spegne privandomi del piacere della tracciona (ricostruita a posteriori).

Il lago di Lamar, altre 3 ore e 15 km dopo, è la solita tentazione, ma stavolta fuori fa davvero troppo freddo per concedersi un bagnetto rigenerante, e sto tentando di arrivare in tempo a pranzo dai suoceri. Cosa che più o memo mi riesce, così comincio immediatamente a reintegrare le calorie spese in questi 107 km e poco meno di 3000 metri di dislivello, l'ultimo lunghissimo di questo 2020, che, alla faccia del Covid, mi ha portato in un sacco di posti bellissimi. 

Buon Anno.


 

23 dicembre 2020

Swiss Peaks Trail - seconda parte

Al nuovo risveglio il cielo è già chiaro e dopo poco arrivo al rifugio Cabane de Mille, al cospetto di Sua Maestà Monte Bianco e di molti altri sovrani. Dentro mi fermo poco, perché lo spettacolo tutto intorno è di quelli da togliere il fiato, ancora di più alla luce del primo mattino. Peccato che non me lo goda per niente: ho un evidente principio di bronchite, che è sintomo infallibile del Covid. Quindi devo avvisare gli organizzatori, ritirarmi, tornare a casa in qualche modo e chiudermi in quarantena. Intorno a me è tutto così bello che mi viene da piangere al pensiero di doverlo lasciare e telefono a mia moglie per farmi consolare. Lei mi fa notare che dopo tre notti all’aperto, in montagna, e con la neve, un po’ di casini respiratori sono il minimo che potevo aspettarmi, quindi il famigerato Corona Virus probabilmente non c’entra nulla. È talmente convincente, che in fondo ai 1300 metri di discesa, che mi bevo pieno di rinnovato entusiasmo, mi è già passato tutto. 

Alla base vita di Champex-Arpette, al chilometro 200, sotto un bel cielo azzurro scopro e che i miei piedi sono diventati due panetti gelatinosi, color bianco sporco, segnati da solchi profondi, che non trovo di meglio che spalmare con l’unica cosa che ho dietro: burro di cacao per le labbra. L’insolita “cura” sembra funzionare, mentre salgo convinto alla Fenetre d'Arpette e ne scendo sorvegliato dall’imponente ghiacciaio di Trient, ma smette di farlo nella discesa di pietre e gradoni che sprofonda nella forra del torrente “L’eau Noire” a poca distanza da Finhaut. Fortuna che poi per un po’ ho altro a cui pensare: alla base vita riprendo energia con un altro microsonno e un po’ di cibo; la estenuante salita al Col de Fenestral, con la sola luce della luna a mostrarmi il cammino, è di una bellezza tale da trascinarmi fino in cima senza mai tirare il fiato; la discesa successiva è un percorso casuale sulla roccia in cui tutte le mie facoltà sono impegnate nel tenere a bada una paura fottuta di farmi male; nella salita e discesa del Col d’Emaney sono ormai così stanco da non riuscire a pensare ad altro che al ristoro del Lago di Salanfe, dove trovo una branda e mi ci seppellisco per un po’.

Quando ne riemergo sta nascendo il mio quarto giorno di gara e mentre la salita verso le rocce nere e sbriciolate del Col de Susanfe è una piacevole escursione mattutina, la discesa verso il ristoro di Cantine de Barme, fra il male ai piedi e la frustrazione per tutta la voglia di correre che ho e l’impossibilità di farlo per il troppo dolore, è un’agonia. Così alla base vita di Les Crosets mi consegno alle mani del personale sanitario: in francese non sono in grado di spiegargli niente, quindi mi fanno quello che vogliono loro, cioè malissimo. La tortura però risulta efficace, aiutata anche da Jiri, un ex militare dell’esercito della Repubblica Ceca, che da quando mi raggiunge al chilometro 256 a quando ci separiamo al chilometro 290, smette di parlare solo sul tratto ripidissimo dopo il ristoro di Conches, con il risultato di rubarmi un po’ di poesia, ma di farmi dimenticare completamente il male ai piedi.

Nel frattempo, quando mancavano “solo” 35 chilometri all’arrivo, avevo deciso che ormai ero quasi arrivato, e non valeva la pena fermarsi a dormire in base vita. Che sia una idea del cavolo lo capisco già una decina di chilometri dopo, quando mi tocca cedere agli occhi che si chiudono, salutare Jiri, e raggomitolarmi per dieci minuti nell’oscurità in mezzo al pascolo, avvolto alla meglio nel mio telo termico ormai malridotto. Ma poi va di male in peggio. Appena sveglio manco un bivio e mi faccio un chilometro in discesa prima di accorgermi di aver sbagliato strada e di doverlo rifare in salita; per i dieci chilometri successivi corro completamente in balia degli eventi, straparlando con gli altri concorrenti in tutte le lingue che conosco, e con l’impressione di continuare a girare in tondo; al penultimo ristoro tento senza successo di dormire su una panca di legno nel fumo di un falò, e all’ultimo mi accascio su una branda senza più nessun interesse a finire la gara, e mi spengo.

Se riparto, è solo per colpa dei volontari, che dopo un’ora di sonno tombale mi buttano fuori dal ristoro e mi rimettono sul percorso, dove io, pur camminando, ci metto mezzora a tornare in me, rendermi conto che ho rischiato di ritirarmi a 12 chilometri di discesa dall’arrivo, e a rimettermi a correre.

Il tratto finale è la degna conclusione di un viaggio bellissimo, con le gambe che hanno ancora tanta voglia di correre, la luce del sabato mattina che illumina con discrezione il lago di Ginevra, e un po’ di gente ad applaudirmi mentre percorro gli ultimi metri prima dell’arco gonfiabile. Lo taglio dopo 104 ore 11 minuti e 58 secondi, quaranta ore più del primo, quaranta meno dell’ultimo.

22 dicembre 2020

Swiss Peaks Trail - prima parte

Dietro l’arco gonfiabile della partenza, sotto un cielo nero da cui cadono radi minuscoli cristalli di neve, poco meno di 300 uomini e donne ascoltano in religioso silenzio il briefing pre gara dello Swiss Peaks Trail: sarà lunga, farà freddo, state attenti.

A mezzanotte dell’ultimo lunedì di agosto partiamo, un branco di luci frontali che ballano uscendo da Bettmeralp, salgono fino al bordo del ghiacciaio più grande d’Europa, nascosto dall’oscurità, e poi si tuffano sempre più sgranate nella valle del Rodano. In fondo, molto prima del mattino, ci aspettano i primi 1800 metri di dislivello, per gli altri 21.000 e passa abbiamo tempo fino a domenica. Quando in cima al primo passo il sole bacia timidamente le cime intorno, la prima notte, che è sempre la più difficile, è andata. 

Il primo giorno di questo viaggio senza tappe è un lungo assaggio di quello che ci aspetta nei più di 300 chilometri fino al lago di Ginevra: salite lunghissime al cospetto di ghiacciai bianchissimi, discese rigeneranti su sentieri di ogni tipo, boschi incantati dove gnomi e folletti si nascondono sempre un secondo prima del nostro passaggio, torrenti gelidi dove non c’è tempo di sguazzare, villaggi di montagna vietati alle auto e al disordine, e tanta, tantissima Bellezza. Nonostante ai ristori dobbiamo igienizzarci le mani e indossare la mascherina, l’incubo del Covid visto da qui sembra appartenere ad un altro mondo, o ad un altro millennio. Poi è di nuovo notte e di nuovo salita, e io sto ancora bene, ma comincia ad essere tempo di riposare, dopo quasi 90 km e 30 ore dall’ultima volta che ho chiuso occhio. 

Alla base vita di Grimetz ci sarebbe tutto quello di cui ho bisogno: la borsa con le mie cose, cibo, letti e docce, basterebbe solo fare tutto nell’ordine giusto. Io invece mi metto a dormire prima di cambiarmi. Il risultato è che dopo poco mi sveglio intirizzito, e una doccia caldissima sembra la soluzione di tutti i miei problemi solo fino a quando non mi rendo conto che, appena ne uscirò, ricomincerò a tremare come prima. Mi ci vuole parecchio per trovare il coraggio di chiudere l’acqua, e ancor più per mettere insieme la voglia che serve a ributtarmi nel buio, dove mi aspetta una lunga salita prima della Cabane des Becs de Bossons. Meno male che per un po’ mi accompagna un francese e, quando lui se ne va, mi fa compagnia un’enorme luna piena, che illumina a giorno l’anfiteatro innevato dove salgo nel silenzio assoluto di una notte di montagna. Sarebbe un momento magico, se non fosse un momento quasi tragico: ho un sonno tremendo, mi si chiudono gli occhi. All’idea di addormentarmi qui, a non-so-quanti-gradi sotto zero, ho semplicemente paura di morire. A forza di farmi coraggio, di mordermi le dita e di spalmarmi neve sulla faccia, arrivo al rifugio in cima alla salita: dentro c’è un caldo tropicale e i gestori mi accompagnano in una stanzetta dove la paura si scioglie e mi concedo 20 minuti di black out assoluto. 

Quando riapro gli occhi sono pronto per mangiare qualcosa e godermi finalmente lo spettacolo che mi aspetta fuori: in un silenzio di cristallo la notte inizia a scolorarsi ritagliando sull’orizzonte centinaia di swiss peaks. Un minuto di pace assoluta e poi via, a lasciare che le gambe si godano la discesa senza un solo pensiero ad infastidirle. Al ristoro di Evolene, anche se non c’è niente che assomigli a brioche e cappuccino, è ora di fare colazione.

A quello di Chemenille, 800 metri più in alto, un’insalata di patate e maionese e una intervista alla TV della gara fanno da ricreazione prima degli altri 600 metri che mi separano dalla fine della salita. Poi la scena se la prende la maestosa diga Grande Dixence: prima come sfondo lontano alle foto scattate dal passo, poi come meta agognata da raggiungere risalendo una lunga valle placida che si impenna poco prima della base vita, posta ai suoi piedi. Arrivato lì, mangio molto, dormo poco, e riparto. Superata la diga e lasciato alle spalle lo spettacolo del Lac des Dix e di tutti i ghiacciai che lo circondano, la gara si infila in una valletta popolata di stambecchi, per poi riposarsi un attimo sull’incredibile spianata figlia della cava da cui hanno preso il materiale per la diga e, dopo un passo che per soli 15 metri mi toglie la soddisfazione di arrivare ai 3.000, planare su un’interminabile pietraia coperta di neve, dove ogni passo richiede dieci volte l’attenzione e cinque volte il tempo di quelli fatti fino a qui. E c’è di peggio: terminata l’interminabile, mi ritrovo su un sentiero in costa, a strapiombo sul buio, cosparso di tratti innevati e di nuove pietraie, molto più piccole della precedente, ma con pietre molto più grandi. Altre due ore che friggono il cervello per l’attenzione a dove mettere i piedi, e un’ultima di discesa “normale” che frigge solo le gambe, mi portano finalmente al ristoro di Plampro. 

Non è una base vita, quindi non c’è un posto caldo dove dormire, ma ho troppo sonno e dopo due piatti fumanti di raclette su letto di patate lesse, mi arrischio su una branda, avvolto nel telo termico di emergenza. Non è un piumino, ma tiene abbastanza caldo da farmi terminare con soddisfazione il microsonno da 15 minuti e permettermi di ripartire. 

È diventato giovedì, credo, e devo salire un brutto e ripido sentiero nel bosco, accompagnato da uno svizzero con cui chiacchieriamo per farcelo passare. Finita la parte peggiore ricomincio ad avere un gran sonno, che prima cerco di combattere tenendo occupato il cervello a raccontare al mio compagno, in francese, la storia di Cappuccetto Rosso, e poi di assecondare con un altro microsonno da 10 minuti sdraiato sull’erba, con addosso il telo termico e a fianco lo svizzero a controllare che non mi congeli. Quando lui mi sveglia non ho freddo, ma gli occhi insistono per richiudersi, così lascio andare il mio angelo custode e dormo altri 10 minuti.

Seconda parte



 

18 novembre 2020

Dalle parti del Carè Alto

Sono finite le gare di ogni tipo (e chissà quando ricominceranno), ma per quanto mi riguarda non è ancora finita la voglia di correre. E dato che sarebbe prematuro iniziare con la austera preparazione atletica invernale (anche perché al momento non è chiarissimo per cosa prepararsi, dato che cosa sarà da qui a 4-5 mesi lo sanno forse solo Amelia e Mago Merlino) mi concedo qualche bel giro per i monti.

Essendomi recentemente procurato una "nuova" attrezzatura, tanto oggettivamente vintage quanto secondo me efficace, che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto ridurre la fatica e il rischio di farmi malissimo, , ho pensato bene di andare a provarla sopra i 2.200, nella zona, fantasmagorica, dell'Adamello - Caré Alto, dove meditavo di andare da un po' (e dove adesso continuerò a meditare di tornare, con calma, l'anno prossimo e negli anni a venire, dato che di giri bellissimi da fare ce ne sono parecchi).

Questa volta la parte più difficile non è mettere i piedi fuori dal letto alla sveglia delle 5.40, ma preparare lo zainetto la sera prima, operazione che, essendo la stagione ancora favorevole ma potenzialmente spietata, richiede parecchia cura e una lungimiranza che, francamente, non è fra le mie caratteristiche principali.

Comunque gliela fo, a preparare lo zainetto, e anche ad alzarmi alle 5.40 e a non perdere la corriera, e alle nove meno venti di un sabato di novembre sono pronto a partire da Carisolo, amena località ai margini della più rinomata Pinzolo, in val Rendena.

Come tradizione la salita inizia con un sentiero ripido e bruttino, ma dopo neanche due ore di fatica ragionevole, mi scodella in un posto che non avevo mai visto neanche in fotografia, con tanto di vista su Adamello e Presanella, laghetto (anzi due) e persino chiesetta alpina. Ci sarebbe anche il rifugio San Giuliano, aperto, ma ho appena fatto merenda autogestita alla omonima malga e poi a novembre il sole ha sempre quell'aria di voler tramontare da un minuto all'altro, anche se non è neanche passato mezzogiorno, e ti mette un po' di ansia, soprattutto se sei in giro da solo. Così proseguo.

Un po' di discesa, qualche dubbio sulla strada da prendere, e poi su per la lunga val Seniciaga, verso i 2.390 metri del Passo Altar, che si fa conquistare senza concedere sconti, ma anche senza eccessiva sofferenza, grazie soprattutto alla mia Nuova Attrezzatura Vintage.

Qualche tempo fa avevo pensato che sulla neve senza ciaspole (o racchette da neve, fate voi) è un casino, ma quelle moderne di plastica sono troppo pesanti e ingombranti per essere compatibili con lo zainetto da trail. Così avevo iniziato a pensare che magari quelle di una volta in legno erano la soluzione di tutti i miei problemi. Il destino ha gentilmente messo sulla mia strada proprio un paio nuovissimo di ciaspole vecchio stile, che hanno dimostrato, dopo qualche piccolo studio in merito, di appiccicarsi benissimo allo zainetto, rimanendo immobili al loro posto anche mentre correvo, e di essere efficacissime sulla neve, accoppiate con i ramponcini che già da anni utilizzo con grande soddisfazione.

Così verso le ore 15 mi isso giulivo sul Passo Altar, godendomi la vista grandiosa sul Caré Alto che mi spunta davanti appena scollinato, e quella altrettanto grandiosa, ma più lontana, del Gruppo di Brenta alle mie spalle. E le foto dicono tutto quello che c'è da dire sulle fantastiche condizioni meteorologiche (supportate, a livello di temperatura, dalla mia per una volta  impeccabile dotazione in fatto di maglie termiche, gusci, ventine, scaldacolli, guanti di varie grammature, berretti ecc. ecc.).

Vista l'ora ormai quasi tarda rinuncio a proseguire verso il Rifugio Caré Alto e mi butto giù direttamente per la val di Borzago, prima lungo un sentiero ripido ed erboso, che mi ricorda alcuni macabri titoli di cronaca dei giorni scorsi, poi lungo uno meno ripido e più sassoso, e infine lungo una forestale che diventa strada asfaltata e mi riporta in fondo valle.

Qui mi rendo conto che tutti i miei sforzi per diventare un ragazzo prudente che ambisce ad diventare in futuro un anziano vivo, sono inutili, dato che dopo una intera giornata di specchiata virtù sia in fatto di dotazioni alimentar - abbigliament - tetniche, che di scelte di percorso e attenzione a non abbandonare il sentiero, rischio la vita a bordo dell'auto che mi dà un passaggio fino a Tione, quando il guidatore, infervorato nei suoi racconti montanari, infila una rotonda in contro mano. Fortunatamente sul lato opposto non arrivava nessuno.












24 ottobre 2020

Molti giorni (ed errori) dopo

Dal lontano 15 settembre, data dell'ultimo post su questo che, se non conto male, è uno dei soli 4 ori-blog italiani sopravvissuti, mi sono allenato quasi niente (1 solo uscita, lunga, ma una sola) e ho corso 4 gare, con risultati piuttosto mediocri. Ho collezionato una serie di bestialità non male, che devo confessare prima di domani, sperando che questo sia catartico in vista di quella che rischia di essere l'ultima o-gara del 2020, la long in Primiero.

Gara 1 - 3° Coppa Italia - Pergine - Valar - Parco 3 castagni
Carta/bosco abbastanza infame, dove negli anni di vacche grasse ci si correvano giusto gare di Oricup inverno o al massimo di CSI, mentre quest'anno ci si corre in coppa Italia. E' una gara fisicissima (bosco erto e sporchissimo) quindi dovrei andarci a nozze, solo che bisognerebbe anche non farci troppe bestialità. Io invece alterno tratte ben fatte, che mi portano persino in testa alla 4 e anche dalla 8 alla 10), con altre oribbili, tipo l'azimut ubriaco per la 3, il trasferimento un po' stentato per la 5, la pascolata a casaccio per la 11, la scelta insensata per la 14, la battuta a funghi per la 17 e la fantasiosa scelta a caccia di curve di livello per la 19. Vince Matteo Morara.
 
 
 
Gara 2  - Campionato Italiano Middle - Vigolana
Siamo in Vigolana, organizza il Crea Rossa, sicuro che piove. Invece piove solo prima (quindi comunque in bosco dopo 1' sei fradicio) e poi fa un bel po' di freddo, ma poteva andare molto peggio. Io parto (maluccio) 2' prima di Matteo Morara, alla 6 il mio cervello si mette a cercare un naso invece che un avvallamento, lui mi supera, io lo riprendo facendo due best time alla 7 e alla 8, e da lì in poi corriamo assieme, con me che faccio il somaro e lo tiro nelle tratte di corsa, e lui che fa il puledro e mi porta sulle lanterne. Finisce che io gli faccio pigliare l'oro (batte Martignago per 5'') e lui mi fa pigliare il bronzo. Che io alla velocità a cui vanno le mie gambe facevo fatica a leggere la carta prima, figurarsi adesso che non ci vedo neanche più bene...

 
 
Gara 3 - Coppa Italia sprint Doganaccia
Il posto è molto bello, per quanto in culo ai lupi, e la gara è una sprint molto atipica, con inizio in bosco, intermezzo fra le case e fine in bosco. Io per par condicio piazzo una castronata in ogni settore e mi metto al riparo dal rischio di arrivare alla fine con il primo posto che ho alla 4, dalla quale esco in direzione casual precipitando al quinto posto. Infilo una bella serie che mi porta alla 16 a 19'' dal secondo posto e poi mi infilo fra le due case sbagliate, rimanendo a fissare come un cretino un recinto che non è un muretto e che non è dotato di lanterna: ci perdo 20''. La dignità però la perdo alla 22, sprofondando varie curve più in già del dovuto attirato da una lanterna qualsiasi. Vince Matteo Morara.
 
 
 
Gara 4 - Coppa Italia Long Doganaccia
Il posto è sempre molto bello (è lo stesso della sprint...) ma in più c'è molto più tempo di godersi il "foliage" e si va anche sui prati alti. Io però cado in depressione già alla 1, quando arrivo in zona punto, potrei attaccarlo in carrozza, ma il cervello va in stand by e ci perdo 7 minuti, vedendomi passare via nel bosco sia Matteo sia Davide, che partivano dopo di me. Tento di recuperare alla 2 e alla 3, ma alla 4 il cervello si ammutina, e quando è evidente che sono arrivato al punto B, da cui dovrei tornare indietro pochi metri per prendere il sentiero che mi poterebbe comodamente a monte della 4, decide arbitrariamente che sono arrivato al punto A e che devo proseguire per un po' sulla forestale. L'andamento della strada è simile a quello che dovei incontrare (ok, le lunghezze no, ma non sono mica così raffinato) ma quando NON vedo la seggiovia, invece di prendermi a calci in culo penso che non l'abbiao cartografata, e proseguo insipiente. Quando mi trovo davanti il baratro, capisco e piango. Da lì alla fine riesco a collezionare parecchie altre perle di ignominia orientistica (salita insensata in uscita dalla 6, pascolaggio alla 8, collezione di carbonaie alla 9, attacco casual alla 10, scelta di percorso discutibile + ultima tratta da mentecatto alla 15) ma anche a godermi un po' il bosco, che merita molto. Vince Matteo Morara. Che palle.
 
      

La coppa Italia M35 la vince (indovina un po'?) Matteo Morara, davanti a Davide Martignago e a Tommaso Civera, che approfitta alla grande delle mie due pessime giornate appenniniche. Il problema è che questi "veri" M35 non hanno dimostrato che io sono troppo vecchio per misurarmi con loro e che è ora che mi metta a correre con i miei coetanei, quindi l'anno prossimo sarò ancora lì in dubbio.

15 settembre 2020

Di legno e di bronzo

Anche se vado in giro a sollazzarmi sulle Alpi Svizzere per giorni e notti, il mio gioco preferito rimane l'orienteering, e contro ogni logica e prudenza mi presento al via degli italiani sprint e long, che nell'annus horribilis del Covid non potevano che essere ospitati in Primiero, dato che lì hanno stuoli di organizzatori pronti ad ogni evenienza.

La gara sprint è forse la competizione più assurda a cui io mi possa presentare nelle mie condizioni: sono passati 8 giorni dal termine dei miei 316 km + 22.000 m d+ e d- e qualche mio muscolo potrebbe ricordarselo, e ho ancora il cervello cotonato per le troppe ore di sonno perse. Due giorni prima della gara ho provato a fare degli scatti, e le gambe mi hanno chiesto di preciso cosa fossero, ma insomma chissene, arrivo a San Martino di Castrozza (in mezzo alle Dolomiti, cioè a casa mia) e vediamo cosa ne viene fuori.

Ne viene fuori che 

- andando alla 1 mi confondo un po' e mi fermo in mezzo alla strada a 100 dalla lanterna nonostante fossi esattamente dove dovevo essere

- alla 3 faccio il miglior tempo a pari merito con altri 3

- alla 4 forse sbaglio scelta ma lo faccio in fretta

- alla 5 di corsa in salita faccio il secondo tempo a 2'' dal primo

- alla 6 mi sa che sbaglio scelta

- alla 7 forse anche ma perdo solo 4''

- alla 8 faccio il miglior tempo a pari merito con altri 3

- alla 9 lascio 5'' tutti di corsa

-  alla 10 e alla 11 idem altri 3'' e 3''

- alla 12 ne perdo 13 un po' probabilmente anche di scelta

- alla 13 faccio il miglior tempo 

e alla 14 arriva l'oste con il conto, mi presento all'unico incrocio serio del paese con troppo cotone nel cervello, e infilo stupidamente la strada sbagliata, lasciandoci "solo" 30'' solo perché in fondo ci sono delle scalette che per culo vanno dove dovrei andare io. 

Da lì in poi le gambe non si dimostrano più all'altezza degli avversari, e cedo un paio di secondi a lanterna, chiudendo in 15.03, medaglia di legno a 4 (quattro) secondi dal terzo, Matteo Morara, ritornato inopinatamente alle competizioni dopo un digiuno di qualche lustro (ultima gara da sito FISO nel 2011...).

Primo Davide Martignago, in un 13.34 che probabilmente non sarei riuscito a fare neanche senza Swiss Peaks, secondo Tommaso Civera in 14.11, tempo che invece era alla mia portata. Che vuol dire che purtroppo non sono ancora abbastanza vecchio per lasciare la M35.

 
           

Domenica invece si corre a Passo Valles, altro posto splendido circondato dalle Dolomiti, e cartina tutto aperti e rocce, di quelle che se sono in giornata storta mi fermo a piangere qui e là e arrivo a 25' dal primo.
 
E invece.

Il cervello cotonato, in verità un po' meno del sabato, pare adatto a questa carta, le gambe girano bene per quanto il terreno infame permetta di farle girare, e resisto persino alla pressione psicologica di Tommaso Civera, che mi aveva preso alla 2 ma che poi naufraga alla 9 (dopo che comunque avevo punzonato prima di lui la 3, la 4, la 5, la 6 e la 7) e di Davide Martignago, che mi partiva 4' prima e che trovo alla 8 e rimaniamo poi insieme fino alla fine, ma guido spesso io.
 
Nessun crimine orientistico, un po' lento alla 1 e un po' di culo alla 2, preciso e "in carta" dalla 3 alla fine (con leggero sbandamento alla 11, dove con Davide andiamo un po' a spasso per le paludi perché non mi accorgo che la curva maestra non vuol dire la collina più alta), e addirittura 3 migliori tempi (nella prateria per la 7 e nelle salite per la 15 e la 16).

Ne viene fuori un inaspettato e gradito bronzo, dietro al Rientrato (che mi dà 7 minuti, tanto di cappello) e ad Andrea Bruno, sceso recentemente dall'elite (e che me ne dà solo meno di 2, che potevo anche risparmiare quà e là).

Mi porto a casa la mia medaglietta (che in realtà pare mi arriverà per posta, perché causa Covid premiano solo gli elite, con un protocollo igienico che al confronto i centri di medicina intensiva sono dei covi di sporcizia) e un gravissimo dubbio su quale categoria correre agli italiani middle, dato che mi M35 siamo in quattro gatti e la maggior parte dei miei compagni di gioco degli anni scorsi sono sparpagliati in M40 o in M45.

9 settembre 2020

Swiss Peaks, the days after

Prima o poi scriverò qualcosa anche sul "durante", ma oggi sguazzo nel "dopo", e dato che nessuno ne parla mai, mi sembrava carino provare a raccontarne.

Se sei arrivato in fondo ad una gara di 316 km con poco meno di 22.000 metri di dislivello, dopo  quattro giorni e rotti su e giù per le montagne, dormendo in tutto meno di 10 ore, vuol dire che fisicamente qualche carta da giocarti ce l'hai. Però prima o poi il fisico torna a battere cassa, chiedendoti indietro quelle mille mila calorie che hai consumato (senza reintegrarle, stando al significativo aumento del numero di costole che riesci a contare guardandoti allo specchio senza maglietta) e quelle svariate ore di sonno che hai seminato nel Vallese invece di metterle in saccoccia.

Il mio, di fisico, batte cassa a ritmi differenziati.

Le gambe sembrano non essersi mai mosse dal divano, ieri le ho portate a correre, e non hanno fatto una piega. Non sono sicurissimo di riuscire a convincerle entro sabato a scendere sotto i 10 min/km, ma sul lungo lento fanno le splendide. E già dal giorno dopo l'arrivo riuscivo a sedermi sul e alzarmi dal water senza usare le braccia, indicatore infallibile della piena funzionalità muscolare.

I piedi hanno riassorbito gran parte delle bolle e dei dolorini, riesco a mettere le scarpe, perfino le antinfortunistiche, e solo ogni tanto sono ancora un pelino gonfi. Ma cose ridicole, in proporzione allo sforzo profuso.

Lo stomaco è in caccia perenne. Dopo essere stato infastidito nei primi giorni post gara dal mio tradizionale "mescolamento di gusto" per cui ogni cosa che mettevo in bocca alla fine sapeva un po' da ciabatta di feltro, si aggira per il mondo a caccia di calorie, qualsiasi tipo di caloria, che venga dai tre piatti di zuppa di pesce di lunedì sera o dai 3 piatti di spaghetti aglio e olio di questa sera o dalle svariate fette di pane con burro di arachidi ecc. ecc. ecc.

La zucca, quella avrebbe ancora tanta tanta voglia di dormire. Dopo una domenica e un lunedì quasi brillanti, in cui mi sembrava di essere quasi fresco, passo le giornate a sognare di potermi addormentare su una panchina al sole, o meglio ancora sotto il piumone del letto di camera mia. Solo che non avendo perso il sonno per combattere il covid o per spalare le macerie da una città terremotata, bensì a rincorrere esclusivamente il mio personale (benché discutibile) sollazzo, la mia tendenza all'abbiocco non è socialmente molto accettabile (come un'ombra permanente sul viso di mia moglie mi ricorda con inesorabile continuità).

Tutto il resto del mio organismo è probabilmente impegnato nel risistemare lo sconquasso che sicuramente questa scampagnata gli ha procurato, ma lo fa nel segreto di milioni di processi fisico-chimici che vanno avanti per conto loro.

E l'anima? Boh, chissà, non mi pare di provare quel "senso di estraneità dalle cose e dal mondo" di cui tanti mi hanno parlato post Tor & C. ma mi sento sicuramente di condividere una frase di Ilaria: "Rivoglio la luce della luna, le stelle, le bandierine rosse. Almeno lì sai sempre cosa fare e dove andare".




30 agosto 2020

Verso lo Swiss Peak trail

Mentre fuori diluvia, mezza Italia è sotto acqua, mezzo mondo è sotto Covid e qualche altro centinaio di catastrofi piccole e grandi imperversano qua e là, io mi appresto a partire per la Svizzera, Vallese per la precisione, per lo Swiss Peak Trail.


Nelle mie intenzioni di tanti mesi fa, doveva essere una specie di festeggiamento per la sconfitta della pandemia (ebbene sì, speravo che l'estate si portasse via tutto) e una celebrazione della testardaggine con cui avevo continuato ad allenarmi in cortile come un criceto, quando non si poteva mettere il naso fuori di casa.

Invece, come tante volte accade, sarà solo un momento di sospensione in mezzo a tutte quelle cose che potrebbero andare molto meglio, una (grossa) boccata di ossigeno per ricaricarsi e rituffarsi poi a testa bassa nelle 1000 sfide della Vita.

Ok, partire per una corsa di 316 km su e giù per la Alpi Svizzere è un modo strano di rilassarsi, ma per quanto mi riguarda è uno dei più efficaci.

Peraltro, che arriverò in fondo è tutto da dimostrare, dato che la parte di me che l'anno scorso era super preoccupata di non arrivare in fondo al Tor (330 km) ha registrato che io il Tor l'ho corso e questa è più corta, ma non che io al Tor mi sono fermato a 150 km, e quindi questa è più del doppio. Al momento la distanza massima che io abbia mai corso è di 180 km, da lì in poi "hic sunt leones", o più probabilmente camosci o stambecchi.

Ma sono moderatamente ottimista sulle mie possibilità di arrivare sano, salvo e felice a Le Bouveret, magari grazie anche allo "sconto covid", che quest'anno ha fatto accorciare la gara, da 360 km a soli 316...

I posti saranno da urlo, spero non lo saranno anche le condizioni meteorologiche. Ma del resto si sa che "el tem, el cul e i siori i fa quel che i vol lori" (qui a fianco una foto scattata alle ore 9.00 di domenica mattina a Bettmeralp, località di partenza della gara...).

Se l'insonnia funestasse le vostre notti e voleste un passatempo sufficientemente soporifero, potete guardare qui dove sono arrivato. Non sarò invece "socialmente attivo", dato che il mio nokia del 1412 non supporta le nuove tecnologie (ma la sua batteria dura una settimana).

 

Circa 8 o 9 giorni dopo la fine della gara (dipende da quanto ci metto a finirla...), ci sono i Campionati Italiani Sprint e Long di orienteering, in Primiero. Da dimostrare che questo fosse il modo migliore per prepararcisi, anche se lo sanno tutti che un solido riscaldamento pre gara fa benissimo...

3 agosto 2020

Vioz e Cevedale

Ogni tanto mi prende un trip per qualche montagna, questa volta è il turno del Vioz, ragguardevole cima in cima alla Val di Peio, dove ci fanno (o ci facevano?) pure un Vertical. Montagna Vera, in una delle zone più belle del Trentino, al confine con l'Alto Adige e la Lombardia. Ho in mente un giretto allegro, con riscaldamento di 16 km il venerdì tardo pomeriggio da Mezzana (dove mi scodella il trenino della Val di Sole) a Peio, pernottamento al lussuoso Hotel Centrale di Peio (che nella modica cifra della mezza pensione mi satolla con primo - secondo - contorno e dolce) e poi giro Vioz - Val di Rabbi con un po' di bei posti in mezzo.

Solo che poi scopro che lì a due passi c'è il Cevedale, la cima più alta del Trentino con i suoi 3.769 metri, e la tentazione è troppo forte. Il tizio dell'albergo, alla mia domanda "per andare su lì ci vogliono ramponi - picozza e cordata, o bastano i ramponcini?" risponde "se segui le tracce e hai un po' di esperienza di montagna, bastano i ramponcini". E la frittata è fatta.




La salita al Vioz è semplicemente entusiasmante: una processione di posti e panorami uno più bello dell'altro, con un tempo fantastico, un silenzio irreale, il morale alle stelle, gambe - polmoni e cuore in idilliaco stato di grazia, e mi mangio quasi 2000 metri di dislivello senza neanche il fiatone sopra i 3.000. Se esiste l'uscita perfetta, probabilmente è questa.


Poi arrivo lassù e sono pure in tinta con il cielo: Palon de la Mare, Cima Rosole, Cevedale, e Zufallspitze sono lì a portata di mano. Intendiamoci, alla fine non mi succede niente di brutto, ma scoprire a posteriori che ho rischiato per varie ore di finire come un pirla in un crepaccio (perché un ghiacciaio non è come una distesa di neve in inverno, e sotto quel bel manto bianco può esserci un gran casino) mi è un po' scocciato. Per un po' ho effettivamente seguito delle tracce (di due pirla che al primo tratto sui sassi andavano lentissimi e sembrava non avessero mai messo piede sopra i 435 metri s.l.m.) ma poi dove non ce n'erano sono andato avanti felice come un bambino in neve fresca. E ok, tutto bene quel che finisce bene, ma con il senno di poi quelli che arrivavano in senso contrario e mi sembravano dei marziani con picozza, ramponi, imbraghi e corde, erano decisamente più intelligenti di me.

Rischio di morire a parte, anche da lì in poi è stata una figata, con un'altra processione di posti e panorami fantastici, e un consuntivo di 47 km e 3700 metri di dislivello, con l'unico serio inconveniente di essermi scottato entrambe le cosce, perché di mettermi la crema solare solo perché dovevo stare al sole sulla neve per 4-5 ore non mi è proprio venuto in mente...











Verti e Ori

Estate sportivamente varia, dove non riesco a fare a meno di cambiare continuamente distanza e tipo di sforzo, con grande sollazzo.

Dopo il lunghissimo lento sul Vioz e dintorni torno al corto veloce, prima con il mio secondo vertical e poi con l'agognato ritorno alle gare di orienteering: sul "solito" Doss Trento, ma l'astinenza è stata talmente lunga che andava bene anche il parcheggio della Coop.
Il Vertical Vecchi Mestieri del circuito Val di Cembra si corre a Grauno, provincia di Grumes, ed è una figata. Pendenza variabile, tratti corribili, mini discese, scalette in metallo o terra, falsopiano prima dell'arrivo per buttare fuori tutto quello che è rimasto, e una "piacevole" sensazione per tutta la gara, che due battiti in più al minuto il mio cuore non li avrebbe retti. Mi sfianco quanto riesco (arrivo addirittura a sentire una roba che potrebbe essere l'acido lattico nelle vene dei polsi...) spingo gambe e polmoni al limite delle loro capacità e arrivo stanco ma felice, in una miserevole 39esima posizione, che vuol dire che in questo gioco qui decisamente non sono competitivo. Però è un gioco divertente.

Ancora più divertente è il mio gioco preferito, l'Orienteering, anche se giocato in un posto dove ci ho giocato un po' troppe volte. Fortuna che sul Doss Trento o mi perdo o vado pianissimo per non perdermi, e così va anche questa volta. Alla quinta lanterna riesco anche a strappare un 22esimo posto, a 17 secondi dal primo, che su una lanterna da 20'' non è male. Una volta scesi c'è solo da correre, e dopo l'unico dignitoso intertempo di giornata alla 13, risulta evidente che la corsetta mattutina di un'ora e mezza in discesa dal Bondone, in ottica gara non è stata un'ideona.

Alla fine riesco a tenere dietro lo storico rivale Cip Cipriani di quasi un minuto, ma solo perché lui alla 8 fa una vera schifezza (anch'io, ma un pelo meno), mentre Silvan Daves mi dà mezzo minuto, suonandomele in quasi tutte le lanterne (e del giovane Tait non parliamone neanche).

La mia prossima o-gara potrebbe addirittura essere il campionato italiano sprint a metà settembre, la settimana dopo i 316 km del Swiss Peak Trail. Può essere che non sarò in formissima.