30 marzo 2020

ric-O-mincerà, prima O pOi


Tanti anni fa anche in Italia, come nel resto del mondo vicilizzat-O, si correva una gara in notturna, che tradizionalmente era la prima gara di Coppa Italia. Sul far delle tenebre, più o meno in questo periodo, dopo che decine e decine di frontali si erano accese tutte insieme sulla linea di partenza, in un clima spesso rigidino, la voce stentorea di Stegal, dopo aver recitato il countdown con ieratica solennità, proclamava "È iniziata la Coppa Italia duemila-e-quel-che-era". E via nel bosco, con il cuore in gola.

Poi, per motivi che rimasero oscuri ai più, le notturna di inizio anno venne cancellata dal calendario orientistico italiano. Però almeno era rimasta una gara di inizio del Campionato Italiano, in un bel prato o nel parco di qualche cittadina, ma comunque con quel profumo fantastico di primo giorno di scuola, di inverno che stava finendo, di primavera che stava iniziando, di giovani un po' meno giovani dell'anno prima e master un po' più master dell'anno prima, di smania di ritornare a correre con un brichetto una bussola e una cartina, di sollievo per la fine della astinenza da tutto quel micr-O-cosmo di cui tutti si chiedevano come avessero fatto a rimanere senza per tutti quei mesi.

Ecco, in questo periodo in cui i veri problemi sono ben altri, io mi permetto il lusso di avere nostalgia della Prima di Coppa Italia. Probabilmente non ci saranno più il profumo dell'inverno che finisce e della primavera che comincia, ma il resto sarà ancora più bello del solito. Addirittura più bello di quella prima di Coppa Italia del 2014, a Clusone.

2 aprile 2014 - That's O!

L'orienteering è passare un fine settimana a Clusone, un paese del bergamasco fra le montagne in Val Seriana, dove un trentino medio non metterebbe mai piede di suo. E fa male, perché è un gran bel posto.
L'orienteering è dormire in palestra con il sacco a pelo come se avessi ancora vent'anni, e dormire da cani perché invece di anni ne hai il doppio e sul materassino a dormire non ci riesci mica più tanto bene.
L'orienteering è Corrado Arduini, che alla sua ottomillesima trasfera orientistica si prende cura di ciascuno dei giovani dell'Interflumina come se fosse figlio suo, e si preoccupa anche di sapere se hanno portato da fare i compiti per il lunedì e se hanno lavato i denti.
L'orienteering è una gara che sembra tanto facile dove Andrea Gobber, che l'anno scorso è arrivato secondo in classifica generale di Coppa Italia M40 e ha vinto l'argento agli italiani long, non riesce mai ad entrare in carta e prende 6' dal primo.
L'orienteering è correre in discesa veloci come il vento evitando i rovi e superando atleti di altre categorie che ti intralciano la strada, andando ad appoggiarsi su una forma del terreno non poi così invisibile, che ti deposita sulla lanterna 2 con il miglior tempo.
L'orienteering è Christine Kirchlechner che arriva seconda in WA invece di vincere la WE perché è parecchio incinta, ma non abbastanza da non aver voglia di farsi una corsa nel bosco a caccia di lanterne.
L'orienteering è la lanterna 3 che ti pare persino banale per il naso con il sentiero e la voragine che ti indica dove non andare, ma che mangia 40'' a Mario Ruggiero, 1'15'' a Simone Grassi e 1'30'' a Ingemar Neuhauser.
L'orienteering è Sara Di Furia che arriva sorridente al traguardo con la creatura insalamata nella fascia attorno alla pancia, probabilmente che dorme.
L'orienteering è la lanterna 8 dove Roland, Mario e Simone, senza assolutamente farla insieme, ci mettono tutti e tre esattamente 22 secondi. E tu un secondo di più.
L'orienteering è Stegal che parla ininterrottamente per 3 ore senza perdere mai il filo e riconosce il 90% degli atleti a 500 metri di distanza guardando come corrono, e se ti conosce dice un sacco di cose imbarazzanti su di te, ma tanto chissenefrega.
L'orienteering è la fretta nel guardare la descrizione punto che ti fa leggere "radura" dove c'è scritto "gruppo di sassi", e ti fa ignorare una lanterna vicino ad un sasso alla ricerca di quella nella radura, facendoti perdere 39'' su una tratta da un minuto.
L'orienteering è la salita per la 12 dove Roland - che "ha corso tranquillo perché ha uno strappo e non si sta allenando" - ti dà 3'' nonostante tu da inizio novembre ti alleni regolarmente 3 volte a settimana.

L'orienteering è Dalla Valle che per fare defaticamento dopo la gara va di corsa sul montarozzo dietro la zona di arrivo (e anche Edo Cortellazzi che fa la stessa cosa con una maglia gialla fluorescente che si vede da 4 km di distanza).

L'orienteering è correre come i disperati sui trattoni finali di prato, chiedendoti poi come cavolo ha fatto Manuel Negrello a metterci 47'' mentre tu ce ne hai messi 60, e quanti ce ne avrebbero messi Buselli e Rigoni.

L'orienteering è buttarsi per terra subito dopo il finish, assaporando il piacere di essere sdraiato su un prato e di aver tirato fuori tutto quello che hai cercato di costruire in mesi di allenamenti.

L'orienteering (alle volte) è vincere la prima prova di Coppa Italia con 1'17'' su Roland Pin e 2'42'' su Simone Grassi, due che pochi anni fa ti davano dieci minuti a gara, e che magari te li daranno anche alla prossima.

L'orienteering è un grande uomo, nonché mio affezionato lettore, che ieri è stato operato di tumore alla tiroide, e che domenica era a correre a Clusone, "perché così non ci pensava". Tantissimi auguri!

6 marzo 2020

Il mio TOR(mentato) X – settima (e ultima) puntata

Il mio Tor 2020 finisce a Donnas, più o meno dopo 150 km e 44 ore. Mentre cerco di decidermi a tornarmene a Courmayeur, mi aggiro per la base vita come uno che è lì per caso. Ho appena abbandonato un sogno che rincorrevo da mesi, ma sembra che la cosa non mi riguardi. Guardandomi da fuori tutto sembra funzionare alla perfezione, non ho un dolorino che sia uno, non zoppico, non ho l'aria stravolta, sembro fresco come una rosa e pronto a ripartire. Ma da dentro non funziona niente.

Quando finalmente mi decido ad andarmene è troppo tardi per riuscire a prendere la corriera (che perdo per pochi secondi, vedendola passarmi davanti quando sono a qualche centinaio di metri dalla fermata) e mi imbarco in un lunghissimo autostop, aiutato dalla famosa "borsa gialla del Tor" che mi pende mesta da un lato.

È martedì e i giorni successivi li passo a Courmayeur, in attesa dell'arrivo dei miei compagni trentini, senza nulla da fare lì, ma senza neanche la voglia di tornare prima a casa.

Nella mia bolla di solitudine mi guardo indietro: al posto di un appassionato di corsa in montagna che rimpiange per aver lasciato, c'è una "Volpe-e-l'uva" travestita da Leopardi in fase di pessimismo cosmico, che scrive così: "Questa mattina nessuna prospettiva di vedere il Rosa, il Cervino o il Bianco è riuscita a convincermi a ricominciare a salire da Donnas. Mentre mi è sempre molto chiaro quanto sia sottile il filo che ti tiene sospeso, la notte, al freddo, lassù. È vero che essere là a quell'ora era uno dei motivi per cui volevo fare questa gara. Ma forse a quell'ora è meglio che là non ci vada più, e lasci che la Montagna vada a letto e si svegli senza nessuno che la disturba. In uno zainetto ci sta il minimo indispensabile, nulla di più. E se hai freddo alle dita non è che riesci a fare molto per tirarti fuori da un guaio. E anche questa notte sui colli farà molto freddo e sarà tutto un vestirsi e spogliarsi e rivestirsi. No grazie. Felice di esserci stato per un po', ma no grazie. Fra me e il Tor credo che qualcosa non abbia funzionato. È stato bello assaggiarlo. Credo mi basterà".

Sono giorni strani, in un posto dove tutto e tutti parlano di Tor e con un cielo finalmente terso che dovrebbe farmi venir voglia di mangiarmi le mani fino al gomito per quello che ho fatto, ma non ci riesce. Però tutto quel cielo azzurro e tutto quel Bianco che ogni minuto mi guarda con i suoi ghiacciai e le sue creste, evidentemente alla fine riescono a sciogliere almeno qualche pezzo del ghiaccio che c'è dentro di me, perché il giorno dopo scrivo: "E inaspettato, quasi a tradimento, mi si insinua dentro il desiderio di essere di nuovo qui fra un anno. Per finirlo. Per viverlo davvero". 

La strada per stare davvero meglio è ancora lunghissima, ma almeno riesco a scollare il culo dal lettino dell'unico hotel ad una sola stella del centro di Courmayeur e dalle panchine del centro, e a tornare "lassù", sugli ultimi km del Tor, fatti in senso contrario, andando incontro a quelli che lo stanno finendo, mentre io forse l'ho appena iniziato.

Vai alla puntata precedente.

 


3 marzo 2020

Il mio TOR(mentato) X – sesta puntata

Eravamo arrivati a Cogne, dove mi sembrava quasi che fosse tutto a posto e da dove ero ripartito dopo una breve sosta ai volontari "abusivi" che offrivano il caffè a tutti i partecipanti. I successivi 5 km di quasi pianura avevo tentato di correrli, sebbene con scarso successo, e quando la salita era ricominciata, avevo di nuovo bisogno di dormire.

I volontari della successiva "base non ufficiale" si erano rifiutati di darmi un posto dove farlo, per mettersi su un prato cominciava a fare troppo freddo, così avevo continuato ad addentrarmi nel vallone verso il Col Fenetre di Champorcher con la testa avvolta in pensieri sempre più cupi. Iniziavo a chiedermi non solo chi lo facesse fare a me, ma anche chi lo facesse fare a tutti gli altri, arrivando, nel mio delirio da anima depressa, a dirmi che il fatto che nessuno si fosse fermato a mangiare i mirtilli lungo il sentiero, dimostrava che gli atleti del Tor non erano dei veri amanti della natura...

Il posto, come al solito, è stupendo, ma io non me ne accorgo. Fa sempre più freddo, il sole è tramontato, mi fermo a vestirmi e mi raggiungono altri concorrenti, con cui cerchiamo la strada giusta in mancanza di segnali visibili. La forza del gruppo ci fa ritrovare la retta via e arriviamo al rifugio Sogno di Berdzé, dove mi ficco immediatamente sotto le coperte di uno dei letti al piano di sopra. 

E' il momento più brutto del mio periodo più brutto. Mi assale il terrore, non riesco ad immaginarmi fuori da quelle coperte e tantomeno sul sentiero verso il passo. Mi metto 4 coperte e tutti i vestiti che ho nello zaino, compreso il piumino, ma ho freddo comunque. Mi immagino a raccontare ai volontari quello che mi sta succedendo, che ho avuto un attacco di panico e che ho bisogno di essere riportato a valle. Non capisco neanche se sto dormendo o sono sveglio. Vorrei solo stare rannicchiato sotto le coperte nel mio letto a casa mia, e non potrei essere più lontano da lì.

Dopo un po', senza che di fatto sia successo niente, inizio a tranquillizzarmi, a pensare che forse ho sognato tutto, ad avere meno freddo. Riesco ad immaginarmi fuori di lì senza provare il panico, a pensare di poter uscire e ripartire per il passo. In effetti non ho nessuno dei sintomi dei veri attacchi di panico e quando riparto non solo l'ultima salita non mi terrorizza quanto mi era sembrato poco prima, ma mi siedo per un po' su un sasso, a luce spenta, a ragionare fra me e me su quello che mi sta succedendo, in quel momento e nella vita. Poi riparto.

E' notte fonda, al passo non si vede nulla, e ancor di meno si vede ad inizio discesa, dato che scende la nebbia. Raggiungo un concorrente che affronta i sassi molto prudente e che conosce questo tratto per averlo già provato. Scendiamo insieme chiacchierando, e come al solito è un grande aiuto, almeno fino a quando non gli chiedo che tempo pensa di metterci andando di questo passo, e lui (uno che ha fatto la Milano - San Remo di corsa, non proprio l'ultimo arrivato) mi dice un numero che vuol dire una notte intera in più di quello che speravo di metterci io. 

La nebbia che non c'è più sul percorso, cala di nuovo nella mia testa, e accelero di colpo abbandonando il mio compagno: dopo quello che ho sofferto nelle prime due notti, l'idea di doverne fare altre tre mi è inaccettabile. Tengo una buona andatura fino a Champorcer, dove chiedo qualcosa contro l'asma e i medici mi fanno una serie di verifiche per capire se autorizzarmi a ripartire (come se il problema più serio fosse ai polmoni, ma loro mica lo sanno). 

Riparto con un paio di bronchi in più (nonostante stupidamente abbia chiesto una sola spruzzata di broncodilatatore invece delle solite due) e anche se il sentiero è un po' infame riesco a procedere discretamente fino a Pont Boset, dove azzardo un microsonno sdraiato su una panchina di legno nel tendone illuminato del punto di ristoro. Addormentarmi mi addormento, ma quando mi risveglio non va molto meglio di prima, e nel prosieguo del sentiero infame vengo raggiunto da tutti i fantasmi che mi inseguivano, e getto la spugna. 

Comincio a camminare, nonostante il sentiero permetta tranquillamente un minimo di corsa, e vedendo che continua a non raggiungermi nessuno, mi sento l'ultimo degli ultimi, nonostante la mia testa sappia benissimo che dietro di me ci sono almeno altri 6-700 concorrenti. Continuo così, lentissimo, anche quando arrivo sul fondovalle, dove continuo a camminare, in pianura sull'asfalto, per tutto l'abitato di Hone, poi su per il forte di Bard, poi sulla strada romana, poi lungo le strade di Donnas fino alla base vita. 

Avrei tutto il tempo del mondo, potrei dormire 12 ore, mangiare e ripartire abbondantemente entro i tempi dei cancelli orari, ma non c'è più nessuna cellula del mio corpo che ha voglia di farlo né alcun frammento della mia mente o del mio cuore che desideri farlo. Non riesco a vedere alcuna ragione per proseguire, fisicamente sto bene, ma tutto dentro di me è spento. Dormo un po', mangio, mi guardo intorno e mi infastidisce tutto. Ci metto un po' a decidermi a fermare definitivamente il mio gps e a comunicare il ritiro ai volontari, ma non ho il minimo dubbio sul fatto di farlo. Il mio Tor finisce qui e non riesco neanche ad essere dispiaciuto.

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