14 settembre 2022

UTMB, fuochino

Dopo qualche anno che le vedevo nei video e nelle fotografie, fra quella moltitudine di teste pigiate dietro l’arco di partenza dell’UTMB, quest’anno c’è anche la mia. La piazzetta davanti alla chiesa di Chamonix dal vivo è più piccola di quello che sembra nelle immagini, ma in qualche modo ci stanno comunque 2300 persone, che sono una marea.

Marea che sulle tradizionali note di Vangelis si mette in moto un po’ alla volta per iniziare quei 170 chilometri con 10.000 metri di dislivello all’ombra del Monte Bianco, che entro massimo 46 ore e mezza dovrebbero riportarci tutti qui.
I primi 30 chilometri sono qualcosa di completamente diverso da qualsiasi altra gara di trail al mondo. Si corre in mezzo ad un fiume di gente, con una folla ai lati del percorso, soprattutto ai punti di ristoro, che io ho visto solo in televisione al Giro d’Italia e al Tour.

Mentre corro nella notte che avanza, lungo sentieri fino a lì non proprio memorabili, mi viene un po’ da chiedermi cosa abbiano questi da strepitare in quel modo per degli Uno-Qualunque che ci stanno solo mettendo tanta buona volontà, ma essere acclamati come star dà piacevoli brividi lungo la schiena e poi c’è da pensare a qualcosa di ben più importante: la prima vera salita, quella al Col du Bonhomme. 

Nelle altre gare dopo un paio d’ore ti ritrovi da solo con il tuo ritmo e le tue gatte da pelare. Qui dopo 6 ore è ancora tutto un superare e venir superati, per quanto mi riguarda più la seconda della prima. A guardare la processione interminabile di luci che sale senza sosta, più che gente che sta facendo quello che ama, sembriamo i dannati di qualche girone dantesco, e la sensazione diventa ancora più forte quando in cima al passo, sotto un cielo che per l’occasione ha lucidato tutte le sue stelle, a fermarsi a guardare in su sono solo quelli bloccati da un impellente bisogno fisiologico.

Non mi sembra di andare male, eppure perdo altre 102 posizioni nella discesa dal colle e altre 53 nella salita successiva, quella che ci fa superare il confine del Col de la Seigne e giungere in Italia, assestandomi al 631esimo posto. Non che conti qualcosa, ma al morale, e quindi alle gambe, non fa mai bene vedere schiene che se ne vanno.

Fortuna che le prime luci del giorno iniziano a giocare con le cime, i ghiaioni e i ghiacciai del Monte Bianco, e il tracciato si infila nella parte più bella di tutta la gara. La Val Veny e la Val Ferret sono probabilmente fra i posti più belli al mondo dove correre, e fra le due c’è la base vita di Courmayeur, che costringe ad una discreta perdita di quota, ma permette di tirare un po’ il fiato, cambiarsi, mangiare e ripartire un po’ più freschi. 

Tutti quelli che hanno corso l’UTMB dicono che “la gara comincia a Courmayeur”, e la mia sembra cominciare proprio bene. Nonostante le 14 e passa ore già sul groppone, finalmente non mi supera più nessuno e continuo a raggiungere gente. Pare che il carburante “bellezza” sia per le mie gambe più efficace di gel, aminoacidi e tutto quello che si può trovare ai ristori, e qui di bellezza c’è quasi da fare indigestione. Il cielo è terso e si corre per ore a fianco del Monte Bianco, alla giusta distanza per gustarne infiniti scorci uno più bello dell’altro. La salita al Gran Col Ferret sarebbe di suo quasi sfiancante, ma tutto quello che c’è intorno è troppo bello per potersi stancare, e la valle successiva in territorio svizzero chiede solo di lasciare andare le gambe e ringraziare di essere vivi e di poter essere qui.

Dopo il Pit stop ultra rapido a La Fouly, dove mi fermo solo 4 minuti, il percorso ti shakera nel bosco prima di farti risalire a Champex-Lac, dove da ore sogno di fare il bagno. Il sole è tramontato e non è più così caldo, ma sono da sempre un convinto sostenitore delle virtù rigeneranti di un tuffo in gara. Quando riemergo dalle acque e riesco a ripartire ne sono un po’ meno convinto e ci metto un po’ a tornare in temperatura. Ed è qui, dopo che ho recuperato più di 200 posizioni rispetto al mio piazzamento al Col de la Seigne, che i miei demoni affilano i coltelli e si preparano a sferrare la loro trionfale Blitz-Krieg.

Durante uno sforzo simile, che mette veramente alla prova anche i migliori atleti, ci sono sempre parti di te che vorrebbero convincerti a mollare, anche se fisicamente saresti all’altezza di quell’impegno. E loro, i tuoi demoni, ti conoscono meglio di chiunque altro, e sanno benissimo dove colpirti. I miei, ci mettono pochissimo a convincermi che è inammissibile che in una gara così celebrata ci sia una salita così brutta, e a farmi montare una rabbia malata che mi taglia le gambe e mi svuota il cervello, rendendomi inconcepibile qualsiasi scelta diversa dal ritiro. Così, nonostante i tentativi di qualche volontario di farmi cambiare idea, mollo a Trient, a 28 km dall’arrivo.

La salita, quella verso La Giete, era brutta davvero, ma se in quel momento fossi riuscito ad aggrapparmi ad un qualsiasi pensiero positivo, avrei superato quella che era solo una classica Crisi-in-gara, e sono certo che mi sarei goduto tantissimo le bellezze che ancora mi attendevano: un nuovo pezzo di notte stellata da attraversare, il colle che riportava nella valle di Chamonix dopo aver fatto il giro al massiccio con la cima più alta d’Europa, il tratto fra i pascoli fra Vallorcine e Col Montet, la salita bastarda a Tetes aux Vent, le luci di Chamonix in lontananza ad annunciare alla fine, l’applauso dei quattro gatti rimasti nelle vie del centro a festeggiare i finisher anche alle tre di notte, e chissà quante altre.

Quanto dicono che l’ultra trail è soprattutto una questione di testa, hanno ragione: con le gambe da sole al traguardo non ci arriverai mai.

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